CRESCITA E SVILUPPO: BAMBINI PICCOLI
Nascosto
MANGIARE: Quanto è normale? Mangia sempre le stesse cose? Mangiare solo per crescere?
Forse è proprio per la sua imprevedibilità e volubilità che il gusto di un bambino è spesso trattato dai genitori come un capriccio.
La loro paura è che, fidandosi di lui e permettendogli di regolarsi da solo, egli mangerebbe in maniera così disordinata e irrazionale da rischiare gravi carenze alimentari. Questo perché lo vedono spesso limitarsi a pochi cibi preferiti e rifiutare ostinatamente le cose nuove, soprattutto la carne, le verdure e la frutta.
Queste preoccupazioni però si basano quasi sempre su presupposti profondamente errati.
Fra questi presupposti, uno dei più fuorvianti è quello secondo il quale il bambino, per potersi nutrire bene, dovrebbe mangiare sempre una dieta “varia”. Tutti pensano infatti che, solo mangiando di tutto, il piccolo può ottenere le vitamine, le proteine e gli altri elementi essenziali per la sua nutrizione.
Ed ecco perché tentano di convincerlo (o costringerlo) a mangiare contro voglia ciò che ritengono sia giusto per lui e lo torturano talvolta per ore pur di fargli ingurgitare qualche boccone dei cibi che essi considerano essenziali. Eppure basterebbe riflettere un secondo per constatare che, se questa convinzione fosse giusta, tantissimi bambini dovrebbero essere gravemente malnutriti, visto che resistono quasi sempre strenuamente a queste pressioni e finiscono per mangiare comunque a loro modo. Per fortuna le cose non stanno così.
In realtà, anche la dieta monotona e limitata che tanti bambini preferiscono contiene tutti i nutrienti essenziali. Basta, per esempio, ricordare che nei primi mesi un piccolo cresce perfettamente nutrendosi soltanto di latte. Inoltre è importante notare che le vitamine non sono contenute soltanto nelle verdure o nella frutta. Alimenti come il latte, la pasta e le uova ne contengono ognuno in quantità sufficienti ai bisogni del bambino. Al contrario di quanto temono tanti genitori “disperati” insomma, il bambino che non mangia “mai” verdure e frutta non rischia di rimanere privo di vitamine.
Le proteine poi non sono soltanto nella carne o nel pesce, ma il latte, i cereali (pasta e riso), i legumi e le uova ne forniscono in abbondanza. Così, un bambino che non tocca mai carne o pesce, ottiene comunque la sua dose di proteine anche solo dalla pizza, dal latte, dalle uova e dai fagioli, o viceversa.
Ma vorrei fare un’altra considerazione per darvi un’idea di quanto sia assurda la lotta che molti genitori combattono per costringere i propri figli a mangiare una dieta “varia”. È incontestabile che il senso del gusto sia l’unico strumento che la natura ha dato al piccolo per orientarlo nella scelta degli alimenti. È attraverso il gusto, per esempio, che egli “sa” di non dover mangiare il legno o la gomma e sceglie sostanze molto più adatte a nutrire il suo organismo. Se un istinto di questa importanza fosse veramente così poco affidabile come tanti adulti sembrano ritenere, come avrebbe mai potuto la specie umana sopravvivere così a lungo?
Sospetto però che il mio discorso, per quanto convincente, lasci comunque in sospeso una domanda. Il fatto che il gusto sia un istinto così importante significa che il bambino non può e non deve essere educato nella sua alimentazione? La risposta è che, come tutti possiamo costatare dall’esperienza, il gusto si può educare e come. In realtà, il complesso di cibi che ciascuna persona arriva a mangiare da adulto dipende in gran parte delle influenze dell’ambiente familiare. I sapori che gli vengono proposti fin dai primi assaggi, l’esempio dei genitori e il tipo di cucina della cultura in cui vive sono essenziali nello stabilirsi delle sue preferenze alimentari permanenti.
Tuttavia l’educazione può mostrare i suoi effetti solo col passare degli anni. E, al contrario più di quanti sembrano credere, a lungo andare l’educazione è tanto più efficace, quanto più rispetta i desideri e i ritmi del piccolo. Bisogna saper aspettare insomma. La famosa “dieta varia” infatti per moltissimi bambini comincia a diventare una realtà soltanto dopo anni e anni di vita con i genitori, magari solo alle soglie dell’età adulta.
CRESCITA, GRAFICI DEI PERCENTILI
PASSAGGIO DAL PANNOLINO ALL’USO DEL BAGNO
Quali sono gli ostacoli a questo passaggio?
Il bambino dovrà passare dall’evacuare 2-3 volte al giorno, a volte anche 4- 6 con il pannolino, per arrivare ad evacuare 1 volta al giorno quando utilizzerà il bagno. Questo normalmente avviene tra i 18 mesi e i 2 anni. Questo passaggio non avviene allo stesso modo per tutti i bambini
Chi tende ad avere un po’ di stitichezza, se noi lo mettiamo al bagno non evacuerà. Certe volte noi cerchiamo di incoraggiare il nostro bambino ad andare al bagno, anche quando non ne avrà neanche lo stimolo. E’ fondamentale quindi osservarne la capacità di eseguire la evacuazione non solo dal punto di vista mentale ma specialmente fisico. (quest’ultimo problema non è invece presente per la capacità di fare la pipì).
In questi casi, come nel caso in cui il bambino fa più scariche al giorno e non riesce a trattenerle, bisogna prima rivolgersi ad un medico che vi aiuti ad eliminare il problema per poi passare al problema emotivo.
In conclusione bisogna cercare di dare al bambino la sensazione che noi ci adattiamo ai segnali che ci da per evacuare, in modo tale che non lo facciamo sentire pressato e che gli facciamo avere con l’evacuazione un rapporto piacevole. Come dovrebbe avvenire per il cibo in cui si soddisfa il bisogno fisico della fame, per l’evacuazione ci deve essere la soddisfazione dell’urgenza di fare la cacca.
ABITUDINI DI SONNO
Alla nascita un neonato ha l’abitudine istintiva di addormentarsi generalmente poco dopo una poppata, può essere messo sdraiato, dormire anche più di 2 ore e poi risvegliarsi quando ha fame per una nuova poppata. A seguito delle poppate molto spesso il bambino ha l’abitudine di addormentarsi di nuovo.
Oltre il 50% dei bambini anche se si riaddormenta dopo la poppata, appena viene messo sdraiato, si sveglia. Questa difficoltà che ha il bambino di riaddormentarsi da sdraiato, nella maggior parte dei casi, è collegato ad un fenomeno che si chiama reflusso, che, in posizione orizzontale, gli provoca la risalita del contenuto acido dallo stomaco alla gola, e lo sveglia.
I problemi del sonno di un neonato sono molto legate al problema del reflusso, e in casi meno frequenti possono essere dovuti ad altri disagi fisici, come il mal di orecchie in caso di otiti, e la difficoltà a respirare, nel caso in cui hanno dei forti raffreddori.
Le abitudini che il bambino prende nei primi mesi, a seconda se riesce a dormire bene o male, sono delle abitudini che poi possono portare ad avere una assuefazione. Se un bambino ogni volta che si sveglia viene preso in braccio per potersi ri-addormentare, il bambino si assuefà a questo condizionamento, e quindi anche quando sta meglio dal reflusso o dalle altre
problematiche può continuare mentalmente a mantenere un sonno leggero e svegliarsi in continuazione e richiedere l’intervento della mamma che lo prende su e lo metta sulla spalla e lo coccoli per farlo addormentare.
In questo caso il bambino è “viziato” e quindi assuefatto, condizionato a quella modalità, anche se non ha più il fastidio iniziale.
Però i bambini che soffrono di reflusso possono continuare ad averlo anche dopo l’anno di età e quindi continuare ad avere problemi di sonno. Tutto questo va discusso con il pediatra, va verificato e se necessario, va curato, per evitare, da subito, che il bambino continui a svegliarsi per effetto di un disturbo fisico.
Quindi, per concludere, se il bambino, quando sta meglio, continua ad avere problemi di sonno, avrà un vizio, un condizionamento, che può essere discusso e verificato con una tata del sonno o con un esperto di problemi di sonno, che dovrebbe dare i consigli per gestire questa situazione.
ANIMALI DOMESTICI
Quando un bambino dimostra di amare il contatto con certi animali, sarebbe buona regola mettersi a studiare, con l’aiuto del veterinario, quali sono i rischi veri che egli potrebbe correre se lo accontentassimo. E’ sbagliato, infatti, lasciarsi guidare dalle affermazioni che su questo punto fanno la nonna, la vicina di casa o altre persone poco competenti. L’esperienza mi ha insegnato che, purtroppo, anche molti miei colleghi pediatri non sono ben informati su questo argomento e tendono a ripetere pedissequamente voci incontrollate.
Di solito un animale domestico ben curato non trasmette malattie serie e perciò sono convinto che a tutti i bambini andrebbe permesso di toccarlo e di fasi leccare e, nei limiti possibili per la famiglia, di possederne uno.
E’ ampiamente dimostrato che il contatto con gli animali contribuisce allo sviluppo e al benessere psicologico di un bambino, oltre ad essere per lui fonte di gioia. E’ triste vedere come nel nostro paese questo principio sia enormemente sottovalutato e come tanti bambini siano crudelmente privati di un’esperienza così importante per loro. Un’altra di quelle situazioni, insomma, in cui un eccesso di protezione diventa, in pratica, un ingiustificato abuso di potere.
(Tratto dal libro del Dott. Albani ” Si Fa Come Dico Io”)
VITA RISCHIOSA: pericolo incombente
Un bambino che può camminare e correre e girare autonomamente per casa può cominciare a compiere delle azioni, come toccare degli oggetti che non deve toccare, come la corrente elettrica, l’acqua, il fuoco, che sono pericolosi per se stessi e per la casa e quindi deve essere educato.
Questo fa parte di quella educazione che i genitori devono impartire ai figli, per limitare la loro libertà di movimento e per evitare di fare danno e di farsi danno.
Bisogna intervenire ed educarli già quando sono più piccoli, parlando sempre molto e anche bloccandoli fisicamente nel momento in cui stanno facendo qualcosa che non va, che può essere appunto oltre a toccare un oggetto pericoloso anche l’azione del picchiare o mordere un altro bambino e con fermezza dirgli che non deve essere fatto spiegandogli anche le conseguenze che la sua azione può avere.
Nei miei corsi di parenting cerco di insegnare ai genitori come comportarsi in queste situazioni. Quando ad un bambino lo blocchiamo mentre sta facendo una cosa, quando gli diciamo di non compiere una certa azione, lo si deve fare senza insultarlo o etichettarlo con degli aggettivi come ”sei cattivo”, “prepotente”, “irresponsabile” che sono anche offensivi e suscitano la sua irritazione e la sua rabbia.
Dobbiamo provare a spiegargli le conseguenze delle sue azioni con i cosiddetti MESSAGGI IO “io sono preoccupato” “sono in ansia”, perché stai facendo delle cose che possono avere queste conseguenze”. Dei MESSAGGIO IO ne parlo ampiamente nei miei corsi di parenting che potete trovare nella sezione apposita.
LINGUAGGIO: Parla poco? Mi devo preoccupare?
Un bambino impara a parlare dalla mamma o da chi normalmente gli parla. E impara a parlare tanto prima quanto prima, chi gli sta intorno, gli parla fidandosi della sua capacità di percepire le parole e di individuarle e memorizzarle.
Il bambino ha una grandissima capacità di assorbire, è una spugna.
Il bambino non è affatto un pezzo di carne passiva, che non capisce niente e che non percepisce niente, e non ha la possibilità di memorizzare. Invece il bambino appena esce dalla pancia della mamma, è in grado di incominciare a capire, distinguere, percepire e demonizzare quello che sente.
Se tutto quello che facciamo con lui, lo descriviamo in maniera corretta, con le parole, con i termini corretti, e lo facciamo ripetutamente, nelle stesse circostanze e contesti, il bambino prende queste parole e le memorizza e tanto più lo farà quanto più noi siamo coerenti nell’esprimerle e quanto più le individuerà, quanto più noi spicchiamo le parole.
I genitori che non parlano al bambino non possono aspettarsi che il bambino parli alla fine ed è probabile che esista questa correlazione fra il bambino che impara a parlare tardi rispetto a quello che impara a parlare prima.
Poi ci sono anche le caratteristiche genetiche e costituzionali rispetto alla parola (come ci sono anche rispetto al movimento e alla coordinazione che rendono un bambino più o meno atletico), che possono fare delle differenze sostanziali tra un bambino che impara a parlare ad 1 anno e che comincia già a fare qualche discorso, a quello che ci metterà 2-3 anni.
Il bambino che ha problemi neurologici e mentali, e che sono rari, come il bambino autistico.Al giorno d’oggi si usa in maniera scriteriata. la parola autismo anche nei casi di bambini che parlano poco per pigrizia, o perché la mamma gli ha parlato poco o che è comunque silenzioso di suo.
Qual è il limite di tempo in cui ci si può aspettare che un bambino esprimi le prime parole e cominci ad esprimersi volentieri a parlare verbalmente? E’ un limite molto ampio. Può andare da 1 anno a 3 anni.
Se un bambino a 3 anni non è in grado di esprimere in maniera assoluta quello che vuole in nessun modo è chiaro che è un bambino che ha un problema.
Un bambino che ha una capacità di linguaggio, si può far capire con cenni, con fonemi, con parole smozzicate che comunque sono comprensibili e che dimostrano la capacità e la tendenza del bambini a voler comunicare. Il bambino che ha problemi seri non riesce a fare neanche questo.
Cause di ritardo nelle capacità di linguaggio del bambino possono essere il bilinguismo o nel caso di un bambino affetto da ipoacusia che sono delle infezioni ripetute all’orecchio, delle continue otiti medie che possono verificarsi nei bambini che hanno dei fratelli più grandi (o che vanno all’asilo nido a 4-5 mesi) che vanno a scuola e che portano a casa malattie dell’apparato respiratorie, causando delle otiti ai fratellini molto più precocemente rispetto a bambini che non hanno fratellini più grandi.
In questi casi, per escludere una malattia seria, il bambino dovrà comunque dare la sensazione molto netta di avere la tendenza e la voglia di esprimersi anche se in maniera incorretta e smozzicata.
RELAZIONE CON LA FAMIGLIA: Come gestire i suoi comportamenti tenendo in mente gli obiettivi giusti?
Se un bambino dorme bene e non ha disturbi fisici, la fase di attaccamento alla mamma, cioè la fase iniziale di sviluppo del rapporto affettivo con la mamma, può avvenire in maniera serena e tranquilla con la possibilità per la mamma di ottenere che il bambino dopo aver mangiato, dormi tranquillo e si risvegli solo al momento in cui ha fame. Questa fase di attaccamento è importante che avvenga in condizioni serene, in maniera che il bambino possa dormire bene e sviluppare con la mamma un rapporto non troppo dipendente ciò che avviene quando invece, per varie ragioni, viene tenuto sempre in braccio, costantemente seguito e coccolato da parte della mamma.
In questo contesto è molto importante il modo in cui la mamma risponde alle richieste del bambino, effettuate (a questa età) sempre attraverso il pianto. Prima comincia a piagnucolare, poi a piangere e poi se la frustrazione è forte come quella dovuta alla fame o al dolore, comincia ad urlare. Il pianto sarà tanto più intenso quanto più forte sarà il bisogno o il desiderio del bambino.
Nella maggior parte dei casi però se un bambino piange, lo fa per una semplice richiesta di attenzione (ad esempio dopo che si è svegliato, ed è annoiato e vuole essere preso in braccio). Bisogna quindi imparare, osservando il bambino, a capire quale è la ragione per cui sta protestando e richiedendo la nostra attenzione, distinguendo i casi in cui sono dovute a bisogni veri o propri (come il reflusso o la fame) a quelli in cui sono dovute a richieste di attenzioni, in quanto sono abituati a riceverle e a stare spesso addosso alla mamma. Quindi in questi casi o gli si concede questo “vizio”, ma se invece non si ha tempo, perché ad esempio si hanno più figli, o la mamma lavora o comunque in tutti i casi in cui si è impossibilitati a concederglielo, il bambino deve imparare ad aspettare. E l’attesa per alcuni bambini, abituati ad essere accontentati subito in tutte le loro richieste, non sarà facile e per raggiungere gli obiettivi arriveranno a piangere disperatamente.
Se il bambino non viene accontentato e viene lasciato piangere, non è vero, come dicono alcuni “esperti di Internet”, che può subire dei danni fisici (come ad esempio alle sinapsi cerebrali o agli ormoni) o causargli un danno permanente alla sua personalità o al suo sistema immunitario. Tutte queste conseguenze catastrofiche non hanno nessuna consistenza scientifica, un bambino che piange di frustrazione, di rabbia, perché non viene accontentato, può piangere per 20 minuti e anche più a lungo.
E’ vero, noi non dobbiamo abbandonare il bambino, farlo piangere tutte le volte, trascurandolo, facendogli pensare che non ci importa di lui. Se questo succedesse regolarmente, tutte le volte che piange, come succede con quei genitori che hanno dei problemi importanti di personalità e di rapporto con i bambini, sarebbe un problema, ma se invece il bambino viene sporadicamente lasciato piangere a lungo, non è un problema che può causargli un danno permanente.
Se non ci si sente in grado di capire bene se questo pianto è un pianto di dolore o di richiesta di attenzioni, ci si può sempre affidare all’aiuto di un pediatra o di un esperto.