PROBLEMI DI SALUTE: BAMBINI PICCOLI

Nascosto

VACCINAZIONI

Perché è importante vaccinare i vostri figli?

Il fine principale che abbiamo noi genitori è di far star bene I nostri bambini, farli sopravvivere. Li nutriamo, vestiamo, proteggiamo.

Se i bambini fossero esposti a tutte le malattie a cui erano esposti 50 anni fa, senza la protezione dei vaccini, farebbero la stessa fine dei bambini di allora.

Per esempio, le epidemie di difterite causavano moltissime morti, come anche la pertosse (tosse convulsa). Oggi la gente non sa cosa è la difterite, non ci sono persone con la pertosse. Non si vede più questo fenomeno perché già due generazioni sono state vaccinate e quindi questi organismi non sono più in circolo nell’ambiente, tutti sono immuni alla pertosse.

Poco tempo fa si moriva di meningite causata da meningococco, pneumococco, emofilo influenze, il morbillo, la parotite.

La rosolia uccideva, ma causava anche tanti bambini con gravi deformazioni se la madre contraeva la rosolia durante la gravidanza. Oggi questa cosa non ci sente più perché le madri sono state vaccinate da bambine, 20-30 anni fa contro la rosolia.

Il batterio del tetano è per terra, sui chiodi arrugginiti. Se entra nella ferita di una persona non vaccinata da sintomi neurologici fino alla morte molto straziante. Quando io ero bambino si sentiva di tanti bambini che morivano di tetano.

La poliomielite deformava tanti bambini nel passato. Solo di morbillo in Italia morivano un migliaio di bambini all’anno.

I vaccini sono la ragione della sopravvivenza di milioni di bambini nel mondo che sarebbero invece morti di queste terribili malattie.

Tabella vaccini

La tabella che puoi scaricare qui sotto è quella consigliata.

I vaccini si fanno al più presto per diminuire I rischi. Fino a quando un bambino non è stato vaccinato, rischia di contrarre la malattia vera e propria.

L’unica ragione per ritardare la vaccinazione è se il bambino è molto malato (“40 di febbre”), se ha una malattia in corso importante (non un raffreddore o una malattia banale).

Scarica la tabella vaccini

DIARREA E COSTIPAZIONE

LE FECI DI UN NEONATO

Il muco intestinale (che serve a proteggere l’intestino) e le scorie (le parti non assorbite dopo la digestione, di alimenti puri e liquidi come il latte), compongono le feci di un neonato. 

Nel caso del latte materno le feci sono semiliquide ed eliminate in maniera rapida anche dopo ogni poppata (quindi anche 7 volte al giorno).  Questo può provocare delle leggere irritazioni intorno all’ano, che comunque si risolvono rapidamente con dei trattamenti locali. 

Le scorie del latte artificiale invece tendono a solidificarsi, diventando più pastose ed a fare un percorso di evacuazione più lento, 2/3/4 volte al giorno.

Episodi di Stitichezza: 

Può succedere ogni tanto che un bambino, per nervosismo e maggiore tensione, possa non evacuare per 4/5 giorni. 

Nel neonato allattato al seno le feci comunque rimarranno semiliquide ed il bambino non farà fatica ad evacuare dopo questo periodo.  Non è necessario quindi intervenire.  

Invece, nel neonato allattato artificialmente, le feci tendono a diventare dure  se non espulse per un periodo di qualche giorno.  In questo caso l’eventuale evacuazione può provocare dolore e l’ano è soggetto a piccole spaccature soprattutto se già irritato. Il neonato si ricorderà di questa dolorosa esperienza e questo può portare il bambino a trattenere le feci per evitare di ripeterla.  

Alcuni bambini possono trattenere le feci anche per 10 giorni e oltre, se non si interviene. In questi casi la stitichezza può diventare un problema medico, in quanto nel tempo si possono formare (nei bambini più grandi) dei fecalomi che poi diventano scibale che sono dure come sassi. 

È importante intervenire presto se si nota che il neonato inizia a trattenere le feci per 6/7 giorni. Questo causa sofferenza, quindi e necessario aiutarlo. I lassativi risolvono il problema ma danno assuefazione e possono loro stessi causare irritazione locale. Oggi si utilizzano degli ammorbidenti delle feci (come il macrogol o il lattulosio) che possono risolvere il problema senza effetti collaterali, ma che ci mettono del tempo, anche 7/10 giorni a funzionare. È assolutamente necessario avere pazienza. Nel momento in cui il colon si è svuotato la prima volta da questi ammassi fecali  il bambino non riprende automaticamente ad avere delle abitudini normali.  E’ quindi necessario continuare con l’ammorbidente per il tempo necessario (anche per mesi)  per tornare definitivamente alla normalità.

Cause della stitichezza: 

Lo stimolo all’evacuazione non è altro che il riflesso del retto che si riempie fino al punto da venire stimolato a contrarsi e ad evacuare. Il problema è che lo stimolo avviene in maniera naturale mentre l’essere umano tende a trattenerlo per farla al ‘momento giusto’. In questo modo il bambino spesso impara a trattenerle anche quando non dovrebbe e le feci si induriscono. L’alimentazione non è mai ciò che rende le feci più dure. Al massimo ci sono dei cibi con più fibre che aumentano il volume delle feci (ma comunque non le rendono più dure). Il cambio di alimentazione non è né la soluzione né la causa della stitichezza neonatale.

Il reflusso

Una delle cause della stitichezza è il reflusso. In questo caso il bambino ha dolori e fastidi addominali ed intestinali e tende a trattenere le feci per questa ragione.  

Malattia del megacolon congenito

Raramente il colon è malformato verso la fine, dove vi è una piccola parte che non permette la normale peristalsi (movimento delle feci verso l’ano), una sorta di anello quasi insuperabile. Questo “anello” fa si che le feci si accumulino. Inizialmente questi bambini sono considerati normalmente stitici ma il fatto che non abbiano mai lo “stimolo” deve essere un campanello di allarme. Sono necessarie delle biopsie per verificare se nel colon esiste la mancanza di cellule gangliari, che sono quelle con capacità neuromuscolari per la contrazione e l’evacuazione.

Questa patologia si chiama megacolon poiché’ se trascurata il colon diventa enorme, con conseguenze gravi.

Bambino durante lo svezzamento

L’unica differenza è come cambiano le feci. In quelle durante e dopo lo svezzamento le scorie diventano più riconoscibili. Si vedranno dei pezzettini di cibo. Questa significa che il bambino non ha digerito tutto ciò che ha mangiato, ed è una situazione assolutamente normale.

L’alimentazione solida produce delle feci più solide di quella da latte materno, ma non di quella da latte artificiale.

La dissenteria/ diarrea

E’ normale ogni tanto che i neonati abbiano delle feci liquide, fino a sei-sette volte al giorno. Se non diventano più frequenti e non sono accompagnate da febbre/ vomito e malessere generale non c’è nulla da temere o da fare.  

Quando invece il neonato ha più scariche acquose (oltre le 5/6) al giorno accompagnate da malessere, ed altri sintomi quali febbre e/o vomito potrebbe avere una gastroenterite, cioè un’infiammazione virale dell’intestino che solitamente dura 2/3 giorni e guarisce spontaneamente. Quello che si può fare per il neonato e dargli liquidi (solitamente delle soluzioni saline apposite per la reidratazione) in piccole quantità, molto spesso.

In alcuni casi invece l’infezione è batterica e quindi servono degli antibiotici, regolarmente prescritti dal medico.

REFLUSSO

COSA È ESATTAMENTE IL REFLUSSO

Dei primi mesi di vita della mia secondogenita, Marta, mi rimangono poche foto. In una, scattata durante le vacanze di Natale, quando aveva tre mesi, ha il faccino pallido e mesto e…. un rivoletto di rigurgito che le sgorga dalla bocca. Ed era proprio questo il marchio inesorabile di quel periodo: rigurgiti dappertutto, sui numerosi bavaglini, che io e mia moglie cambiavamo in continuazione, sulle spalle dei nostri vestiti, sulla moquette. E odore di latte acido, per il quale avevamo soprannominato Marta “Formaggino”, o “Ricottina”. Ci meravigliava la sua abilità di emettere ruttini potenti anche dopo ore e ore dalla poppata, rumori che suscitavano l’ilarità di tutti e per i quali si era guadagnata anche un altro nomignolo: scaricatore di porto. Il singhiozzo, poi, la tormentava dopo quasi ogni poppata. Mi ricordo che lo avevamo già notato quando stava ancora nella pancia, dai sussulti ritmici del suo corpicino che erano chiaramente visibili dall’esterno.  E poi le coliche, i contorcimenti, i pianti. Poverina, certe volte sembrava in preda ad una sofferenza atroce, inconsolabile. Presa in braccio, in posizione verticale, col corpo appoggiato sul nostro petto e la testina sulla spalla, sembrava star meglio. Ma ricordo l’espressione che portava spesso in viso, come se fosse demoralizzata, rassegnata a star male. Proprio durante quel Natale le venne anche la bronchiolite, che finì di rovinarci la vacanza in Italia, la prima che ci eravamo permessi da quando ero partito per fare la mia specializzazione a New York.

E, col passare del tempo, le “coliche” non si attenuarono, come ci saremmo aspettati. Marta continuò a soffrire, anche dopo lo svezzamento. Dopo i sei mesi i rigurgiti diminuirono molto, ma ogni tanto aveva un episodio di vomito, che accoglieva con un viso tranquillo, come un fatto che faceva parte della sua vita normale, al quale si era ormai abituata. Il singhiozzo continuava a tornarle, anche se un po’ meno frequente di prima, l’agitazione rimaneva costante, come il rifiuto a starsene tranquilla sdraiata a riposare. Riposare? Un lusso che ci era precluso. Marta non dormiva, o meglio, si svegliava in continuazione e anche nel sonno si rotolava nel suo lettino come una tarantolata. Preferiva dormire in ginocchio, a pancia sotto, col sedere in alto, posizione che ha tenuto per i primi anni e che ci faceva anche un po’ sorridere (Marta a “culo puzzone”). Anche la tendenza a fare dei rutti a distanza dal pasto rimase, per tempo immemorabile. Cominciò a camminare da sola a 10 mesi, età nella quale prese l’abitudine di girare per casa con in mano un biberon pieno di succo di mela o di acqua, al quale si attaccava in continuazione. Questo biberon lo voleva con sé anche quando stava a letto, perché di notte vi si riattaccava ad ogni risveglio, come se avesse un’arsura inestinguibile. E la notte era un continuo andirivieni fra la nostra e la sua stanza, per prenderla in braccio, consolarla, rimetterle il ciuccio in bocca e aspettare che si riaddormentasse. Un tormento, per lei e per noi, che, come succede a tutti i genitori nella stessa situazione, eravamo esasperati, non ne potevamo più.

Pensate che all’epoca ero al mio terzo anno di specializzazione in pediatria a New York e avevo a disposizione la consulenza di un bravissimo gastroenterologo pediatra, che tuttavia, non riuscì a offrirmi nessun aiuto concreto. “Marta is ok”, mi diceva, “ha un aspetto sano e cresce bene. Non c’è niente da curare…”

Bene, riconoscete la vostra vicenda in quella che vi ho raccontata? Se sì, in molti dei dettagli, allora è estremamente probabile che il vostro bambino soffra o abbia sofferto di reflusso gastroesofageo e dell’esofagite che immancabilmente lo accompagna. Ma vediamo a questo punto di cosa si tratta, quali ne sono le cause e i meccanismi e come si manifesta.

Una valvola che non funziona.

Spesso, pensando a quanto sono numerosi i bambini (e gli adulti) che soffrono di reflusso gastroesofageo, mi domando come mai nella specie umana questo problema sia così comune e l’unica risposta che mi è venuta in mente è che si tratti di un “difetto generale di costruzione”.  Mi è venuto in mente, cioè, che la valvola fra l’esofago e lo stomaco (il cardias) che dovrebbe impedire al contenuto dello stomaco di risalire verso la bocca, non si sia sviluppato completamente nel processo di evoluzione della nostra specie. È come se, nel lontano passato, gli esseri umani avessero bisogno di riportare il cibo dallo stomaco alla bocca, cioè come se fossero degli erbivori e dovessero rielaborare il cibo più volte, ruminarlo. E l’impressione che si ha osservando un neonato che rigurgita in continuazione, è proprio che rumini, tanto che in passato il disturbo era definito “mericismo” cioè “ruminazione”.

Che sia vera o no la mia idea sulle origini del problema, nei bambini affetti da reflusso il cardias non funziona a dovere. Rimane spesso aperto (beante) così che, per varie ore dopo il pasto, il contenuto dello stomaco, inacidito dai succhi gastrici, torna su verso l’esofago. Il cibo che risale per la maggior parte viene ringoiato immediatamente quando è ancora a metà esofago. Mentre una piccola porzione (la punta dell’iceberg) raggiunge la bocca e un po’ viene eliminata sotto forma di rigurgito, un po’ “ruminata” e mandata giù di nuovo.

Ecco, immaginate quante volte durante il giorno e la notte, il bambino (e anche l’adulto) che ha il reflusso ingoia e ringoia il cibo che torna su e considerate che ad ogni deglutizione butta giù anche una piccola bolla di aria. E’ facile capire come questo faccia accumulare una gran quantità di aria nello stomaco e perché il bambino (l’adulto) che soffre di reflusso abbia eruttazioni frequenti, anche a ore di distanza dal pasto. E, siccome buona parte dell’aria ingoiata passa dallo stomaco nell’intestino, si dovrebbe capire facilmente perché chi ha il reflusso ha la pancia sempre piena d’aria e al bambino piccolo vengano anche le “coliche”. 

E tutto questo non costituirebbe di per sé un grosso problema se non fosse per due conseguenze che si verificano prima o poi in chi soffre di reflusso.

  1. La prima, inevitabile, è che il contatto con l’acido gastrico irrita la mucosa dell’esofago, che non è attrezzata per resistere all’acidità. Si verifica cioè un’infiammazione, la famosa “esofagite”. Questa, oltre a causare un ovvio fastidio o dolore, ha altre conseguenze. Da una parte provoca il singhiozzo, riflesso legato al fatto che l’acido stimola le terminazioni del nervo frenico e fa partire degli stimoli al muscolo diaframma, che perciò si contrae ritmicamente, D’altra parte, l’infiammazione influenza la funzione dei muscoli esofagei, provocando forti spasmi e difficoltà nella deglutizione.
  2. La seconda è che, soprattutto nella posizione sdraiata, il cibo che risale può “andare di traverso”, cioè imboccare la via della trachea e, in qualche raro caso, arrivare fino alle diramazioni più piccole dei bronchi, rischiando di causare delle broncopolmoniti da inalazione.

È importante capire poi che una forte esofagite, oltre alle conseguenze descritte sopra, provoca anche improvvisi attacchi di nausea ed episodi di vomito vero e proprio, che si differenziano dai rigurgiti perché l’espulsione di cibo è più abbondante e violenta, a getto.

Inoltre, l’infiammazione, che con gli episodi di vomito aumenta ulteriormente, rende il difetto di chiusura del cardias più costante, così che il reflusso aumenta. Il disturbo entra dunque in un circolo vizioso per cui più aumenta l’infiammazione e più aumenta il reflusso, che a sua volta accentua l’infiammazione.

Il reflusso è molto spesso accompagnato ad un’“ernia iatale”, cioè allo scivolamento di una piccola parte dello stomaco dalla pancia verso il torace, attraverso un buco (iato) del muscolo diaframma, buco che serve normalmente a far passare l’esofago verso lo stomaco. L’ernia favorisce l’apertura anomala del cardias e quindi anche il reflusso.

Tuttavia, la sua presenza non deve preoccupare più di tanto e non deve far pensare subito ad un intervento perché nella grande maggioranza dei casi scompare spontaneamente col passare degli anni. Inoltre, con la crescita, l’esofago si allunga, lo stomaco si assesta bene nell’addome, il cardias si rinforza e perciò il reflusso tende a diminuire, così che la maggior parte dei bambini che ne soffre non presenta più i sintomi dopo i due anni di vita.  

Per molti altri, invece, le condizioni che causano il reflusso continuano fino all’età adulta, anche se variano col tempo, così che i sintomi si presentano in maniera fluttuante e capricciosa.  Un aumento eccessivo di peso (l’obesità) e la gravidanza favoriscono in maniera decisiva il reflusso.  

CURA DEL REFLUSSO NEI PRIMI SEI MESI  

Una volta stabilita la diagnosi con ragionevole certezza, per iniziare la cura bisogna capire i principi da seguire per il migliore risultato.

Come gestire l’allattamento  

Tenendo presente che il motivo di base per il verificarsi del reflusso è un difetto “meccanico” della valvola “cardias”, la misura più ovvia da mettere in atto è proprio quella di addensare il latte, in modo che faccia fisicamente fatica a tornare su dallo stomaco verso l’esofago.  Fermiamoci un momento però. E il latte materno? Se, come tutti ci auspichiamo, la mamma nutre il bambino esclusivamente al seno, cosa succede? Semplice: il piccolo reflussante ha un grande vantaggio ed un piccolo svantaggio.

Il vantaggio è che, nella digestione, il latte materno stimola una secrezione minore di acido, così che i rigurgiti sono molto meno irritanti per l’esofago di quelli da latte artificiale e perciò i sintomi sono più lievi e appaiono più tardi, anche dopo i primi due o tre mesi.

Lo svantaggio è che il latte materno, anche pompandolo con un tiralatte e somministrandolo col biberon, ha delle caratteristiche per cui non si riesce ad addensarlo bene con una farina e quindi non permette di risolvere il problema meccanico.

Nonostante questo, considerati tutti gli altri vantaggi dell’allattamento al seno, incoraggio sempre le mamme dei bambini col reflusso a proseguirlo.  

A patto però che si evitino il più possibile delle aggiunte di latte artificiale, che aumentando molto la secrezione acida, spesso rendono vani i tentativi di cura.

Se l’allattamento esclusivo al seno non riesce e i sintomi non migliorano con i medicinali che descriverò fra poco, l’esperienza mi ha dimostrato che è meglio alimentare il bambino solo con un latte artificiale addensato. A questo scopo oggi esistono formule chiamate “antireflusso”, o AR, che contengono farina di carrube e altri mezzi addensanti e che di solito svolgono bene il compito.  Perciò, anche per la facilità della preparazione, consiglio di fare almeno un tentativo con una di queste formule, magari provandone un paio, per trovare quella più gradita al piccolo e che funziona meglio per lui. Ho notato che molti bambini, almeno nei primi tempi della cura, stanno meglio prendendo un latte a base di soia, non perché siano allergici al latte vaccino (che è alla base delle formule di solito usate per l’alimentazione del lattante), ma perché il latte di soia si acidifica meno, un po’come succede con quello materno. Se il piccolo sembra migliorare più decisamente con questo tipo di latte, consiglio di continuare a somministrarlo per alcuni mesi e poi tornare ad una formula a base di latte vaccino.

Quanto latte preparare?  

Semplice: tanto quanto sazierà il nostro bambino, ricordando che non è vero che il reflusso si accentua se le poppate sono abbondanti.

Le domande e le obbiezioni sul latte addensato:

  1. “Ma non è troppo “pesante” per un neonato prendere una pappa già così densa e con tanta crema di riso/mais e tapioca?”
  2. “Non ci sono troppi carboidrati e calorie in questa pappa? Non potrebbero causare l’obesità?”

La risposta è che l’esperienza di 30 anni mi ha dimostrato che i bambini sotto questo regime stanno decisamente meglio con il reflusso, digeriscono bene e crescono normalmente, senza ingrassare.

Ha bisogno di bere?  

Una regola importante da ricordare è che negli intervalli fra le poppate non bisogna somministrare al bambino liquidi (neanche l’acqua), perché questi, diluendo il contenuto dello stomaco, favoriscono il reflusso per ovvi motivi meccanici. Comunque, l’acqua contenuta nel latte addensato è più che sufficiente ai bisogni di fluidi in condizioni normali di temperatura. Se fa molto caldo e vediamo che il piccolo è evidentemente assetato (prende l’acqua con molta avidità), piuttosto che dargli un biberon intero di acqua è meglio offrirgliela a piccole dosi, anche molto frequenti, con un cucchiaino.

Lo svezzamento può migliorare i sintomi? E quando iniziarlo?  

Che il bambino sia allattato al seno o con il latte artificiale addensato, molti genitori mi chiedono se non sia opportuno introdurre al più presto dei cibi solidi, convinti che questo possa migliorare istantaneamente il reflusso. Rispondo sempre che la loro aspettativa è sbagliata e vi spiego subito il perché.

Se la mamma sta allattando esclusivamente al seno, l’introduzione di un solo pasto solido in genere peggiora addirittura la situazione. I cibi solidi, infatti, raggiungono lo stomaco quando c’è ancora un residuo di latte della poppata precedente, così si diluiscono e tornano su insieme ad esso.  E, siccome tali alimenti stimolano una maggiore secrezione di acido rispetto al latte materno, il contenuto dello stomaco che risale è più irritante per l’esofago e quindi di solito fa peggiorare l’esofagite e accentua i sintomi del reflusso.

Perciò consiglio sempre di mantenere, se possibile, l’allattamento esclusivo al seno fino al sesto mese, raccomandazione che del resto è data dagli esperti anche per i bambini che non presentano alcun problema e per altre buone ragioni.

Se invece il bambino prende un latte artificiale addensato, uno svezzamento precoce non offre alcun beneficio aggiuntivo perché il bambino già mangia una dieta solida. Perciò anche in questo caso consiglio di iniziare lo svezzamento con calma, fra il quinto e il sesto mese, senza affrettarsi.  Soprattutto, insisto, sconsiglio vivamente l’introduzione di omogeneizzati di frutta, che con il loro contenuto zuccherino, tendono a peggiorare il reflusso. Do istruzioni, invece, di limitarsi ad un passato di vegetali, crema di cereali, con l’aggiunta di carne omogeneizzata o liofilizzata, il tutto condito con olio e parmigiano e da introdurre assecondando i gusti e l’appetito dl piccolo.  Comunque, lo svezzamento di un bambino reflussante non prevede nulla di diverso da quello di un bambino che non ha problemi gastrointestinali, eccetto, ribadisco, per la frutta e altri cibi dolci, che è meglio evitare per i motivi già spiegati.

La terapia posturale  

Una delle conseguenze del reflusso è che il bambino, soprattutto quando non è ancora in cura, sembra stare un po’ meglio solo se è tenuto in braccio, nella posizione più eretta possibile. Il guaio è che questo significa che sta addosso ai genitori dalla mattina alla sera, con i pochi, brevi intervalli in cui riesce a dormire sdraiato.

E l’abitudine potrebbe facilmente diventare un “vizio”, visto che la tendenza dura molto tempo,  mesi e mesi, nei casi non curati. Comunque, questa preferenza del piccolo dimostra che la posizione  del busto eretta aiuta a tenere il reflusso sotto controllo. Per questo motivo consiglio sempre ai  genitori di munirsi di tutti gli oggetti che servono a tenere il piccolo in una posizione confortevole per loro senza, però, doverlo tenere in braccio. Per esempio, è opportuno usare al più presto un  marsupio, fin dai primi giorni di vita, per tutto il tempo che il piccolo ci sta senza protestare. Va bene anche il sedile per l’automobile, che gli permette di stare seduto senza pendere e cadere verso i lati. L’obiezione che nel marsupio o nel sedile la schiena o il collo del bambino potrebbero danneggiarsi è un’idea arcaica e infondata.  Se sembra stare comodo in queste posizioni, può rimanerci tutto il tempo che vuole e persino dormire sul sedile tutta la notte.

Personalmente consiglio un cuscino munito di semplici mezzi di sostegno che tiene il piccolo nella posizione ideale durante il sonno, sia da supino che come se fosse appoggiato bocconi alla spalla della mamma. Questo oggetto può essere utilissimo per il comfort dei piccoli reflussanti e dei genitori. Non è utile, invece, tentare di alzare con qualche mezzo la testa del lettino mettendo oggetti sotto il materasso, perché in questo modo il bambino si viene a trovare su un piano inclinato senza sostegni ai lati e sotto il sedere e scivola facilmente verso il basso, finendo spesso a testa in giù.

IL REFLUSSO DAI SEI MESI A UN ANNO  

I SINTOMI

Non rigurgita più, ma ogni tanto vomita a getto. Continua con il singhiozzo.  Dopo l’inizio dello svezzamento, fra i cinque e i sei mesi, il bambino reflussante di solito smette di avere dei rigurgiti frequenti e le difficoltà durante i pasti, così che sembrerebbe “guarito” dal suo disturbo. Almeno questo è ciò che molti genitori percepiscono (o desidererebbero che accadesse) e perciò di solito sospendono di propria iniziativa le cure, per stanchezza o perché preoccupati di somministrare troppe medicine al loro piccolo. La maggior parte delle volte, però, la loro impressione (e le loro speranze) vengono deluse da ciò che succede da quel momento in poi.  Il bambino, infatti, continua a soffrire, sebbene i sintomi si facciano più difficili da decifrare.  Gli unici segni chiari di esofagite che si possono presentare (ma non necessariamente) sono dei rigurgiti (molto meno frequenti di prima), degli episodi sporadici di vomito e un singhiozzo abbastanza frequente.  

Il bimbo, in ogni caso, dà la sensazione di “avere sempre il cibo sullo stomaco”, di digerire con difficoltà. Spesso fa dei ruttini dopo varie ore dal pasto.

A mano a mano che passano i mesi, poi, il reflussante di solito non accetta di progredire verso il cibo a pezzettini. Se nella pappa vi sono dei granelli, anche piccolissimi, tende a fare dei conati di vomito e a risputarli evidentemente disgustato. La spiegazione è che l’esofagite, sebbene non grave, rende comunque l’esofago molto sensibile e perciò questo tende ad andare in spasmo durante la deglutizione di frammenti di cibo solido.

Per la stessa ragione, durante la deglutizione, oltre alla difficoltà evidente che si nota, si avverte anche un rumore di gorgoglio profondo, come se il cibo fosse mandato giù a stento, fra spasmi e passaggi di aria.

La tendenza ad avere episodi di tosse frequenti nella posizione sdraiata, e quindi soprattutto di notte, continua anche in questo arco di età.

La stitichezza Che fine fa poi, che in molti, soprattutto se allattati artificialmente, aveva già esordito nei primi mesi? Semplice: continua, anzi spesso peggiora, arrivando a dei momenti drammatici, in cui il piccolo sembra spremersi con tutte le forze che ha senza riuscire ad evacuare.  Quando alla fine ce la fa, spesso piange di dolore e talvolta, insieme alle feci dure, espelle qualche goccia di sangue, perché il loro passaggio apre una piccola lesione, una ragade anale. La stitichezza continuerà poi con alti e bassi anche nel secondo anno, diventando spesso uno dei problemi più inquietanti per i genitori.

In questa seconda parte del primo anno, moltissimi bambini con il reflusso cominciano a chiedere da bere in continuazione.

Per esempio, mia figlia, da quando, a sette mesi, cominciò a gattonare, si trascinava sempre dietro, ben stretto in una manina, un biberon pieno di succo di mela, la bevanda preferita dei bambini americani, (almeno allora, negli anni 70). Ogni tanto si fermava, si metteva seduta e ne beveva un po’, facendo regolarmente un bel ruttino subito dopo. E pretendeva la sua bottiglietta piena anche la sera, quando andava a dormire, sicché nei risvegli si potesse dissetare a volontà. Non sapevo, allora, che il fatto stesso di voler bere continuamente era un segno che il reflusso la tormentava ed era un modo istintivo di darsi sollievo, ributtando giù con la bevanda l’acido che le tornava su. E non avevo intuito ancora che il liquido ingerito facilitava il reflusso, riportando su inesorabilmente il contenuto gastrico e costringendola a bere ancora dopo poco tempo, in un circolo vizioso perpetuo.

  • Per un bambino ancora allattato al seno in questa fase la mamma si arrende di solito a farlo attaccare molto spesso, anche solo per pochi secondi e anche di notte, per la stessa ragione e con le stesse conseguenze dell’abitudine al biberon di acqua (o succo di mela).

Per quanto possa sembrare strano, poi, i cibi solidi, che a rigore di logica dovrebbero aiutare il bambino a non rigurgitare, tornano talvolta su anche dopo varie ore dal pasto. L’esperienza mi ha dimostrato che ciò accade soprattutto con la frutta (specialmente con gli omogeneizzati molto addolciti con il fruttosio) e con tutti gli altri cibi dolci. Sebbene non abbia avuto il modo di raccogliere dati sufficienti sono convinto che,

  • i cibi dolci stimolano l’acidità gastrica e peggiorano i sintomi del reflusso.  Ciò che impensierisce ed esaspera di più i genitori in questa fase, però, sono
  • le difficoltà crescenti che il bambino reflussante ha con il sonno.

A questo proposito ricordo cosa capitava in casa mia con la mia secondogenita. Anche se si addormentava tranquillamente, dopo un’ora o due cominciava a risvegliarsi in continuazione, agitandosi e piangendo e costringendo uno di noi ad alzarsi per consolarla. Rimessa giù sembrava lottare disperatamente contro un misterioso avversario. A guardarla mentre dormiva sembrava di vedere “un verme che si divincola nella cenere bollente”. Si girava, si rigirava, mugolava, perdeva il ciuccio, si metteva in ginocchio a sedere per aria (posizione nella quale spessissimo preferiva dormire), si sedeva improvvisamente e poi si ributtava giù, sembrava che i suoi sogni fossero solo incubi. E nel suo moto perpetuo, finiva quasi sempre all’altro capo del lettino, con la testa premuta sulle sbarre o sul paracolpi. Non aveva pace, insomma, almeno fino alle prime ore del mattino, quando cominciava a dormire più tranquilla fino al risveglio definitivo. Quante volte eravamo tentati, io e mia moglie, di prenderla nel lettone e mandare al diavolo le buone intenzioni di non “viziarla”!

Per me, che dovevo spesso fare la notte di guardia in ospedale il giorno successivo, era un po’ un inferno. Non c’era riposo.

Se il piccolo prende una gastroenterite virale  

Anche nei secondi sei mesi la situazione è rischiosa, perché i bambini che soffrono di reflusso, quando contraggono una gastroenterite tendono a vomitare molto più a lungo degli altri e, di conseguenza, a peggiorare decisamente l’esofagite.

Si stabilisce perciò un circolo vizioso, per il quale più il piccolo vomita, più la tendenza a vomitare si rinforza, così che il pericolo di disidratazione si accentua sempre di più. In questa situazione il piccolo, per effetto della forte nausea e per la intensa stimolazione vagale appare pallidissimo, debolissimo, molto di più di quanto la gastroenterite potrebbe giustificare, ed è comprensibile che questo spaventi molto i genitori.

La sindrome di Sandifer  

E c’è un altro fenomeno, abbastanza strano e inquietante,che può colpire i bambini reflussanti: la  sindrome di Sandifer. (ho la foto originale e il permesso dei genitori)

Eccone un esempio molto eloquente. La piccola Sofia è arrivata dalla provincia di Salerno, alcuni mesi fa, perché i genitori erano terrorizzati dall’idea che avesse un danno al cervello. Aveva sette mesi e soffriva di “coliche” da sempre, si svegliava urlando dieci volte per notte, non ne voleva sapere di stare sdraiata e nemmeno seduta. Sembrava un po’ più tranquilla soltanto se tenuta costantemente in braccio col busto dritto. Ma ciò che preoccupava i genitori era il fatto che da un paio di mesi teneva la testa sempre piegata, come se avesse il torcicollo, e, subito dopo mangiato si irrigidiva tutta, buttando la testa all’ndietro. Era per questo che la sua pediatra aveva espresso il dubbio che si potesse trattare di un problema neurologico. A me la bambina è apparsa subito perfettamente normale da questo punto di vista, ma dalla storia non avuto alcun dubbio che avesse sofferto di reflusso gastroesofageo fin dalla nascita. Da allora, infatti, rigurgitava in continuazione, aveva sempre il singhiozzo, vomitava spesso, sintomi che si erano attenuati dai sei mesi. E tutto questo era stato considerato “normale” dalla pediatra, visto che Sofia era sempre cresciuta bene.  “Tutti i bambini rigurgitano un po’”, “Tutti i bambini si svegliano la notte”, “Tutti i bambini hanno le coliche”, erano le spiegazioni fornite ai genitori disperati perché non riuscivano a dare sollievo alla bambina. Fino a quando aveva cominciato a manifestare quello strano comportamento dopo i pasti ed era venuta fuori l’idea che avesse un danno cerebrale. Eppure, anche il torcicollo e gli spasmi erano un segno evidente del vero disturbo di Sofia. Si trattava della “Sindrome di Sandifer”, una serie di movimenti istintivi che il bambino affetto da reflusso grave mette in atto per difendersi.  Stirando e storcendo il collo in quel modo, infatti, riesce a restringere l’esofago e a impedire almeno in parte il ritorno di acido dallo stomaco. E che si trattasse di questo lo ha confermato la risposta al trattamento per il reflusso. Dopo un paio di settimane di cura, Sofia ha smesso di contorcersi e ha cominciato a tenere la testa dritta. Ma soprattutto ha smesso di soffrire, di agitarsi e di dormire male.

Iperstimolazione vagale con episodi di quasi-svenimento. Gli episodi che ho descritto sotto questo titolo per i bambini nei primi mesi si possono presentare a qualsiasi età, esattamente con lo stesso svolgimento e gli stessi meccanismi. Ricordiamoci che questo fenomeno crea al bambino una sensazione di debolezza estrema, un pallore intenso, fino a farlo apparire come svenuto.  

Episodi di vomito con sangue.  

Raramente l’esofagite arriva ad essere talmente grave da manifestarsi con episodi di vomito con sangue, legato alla presenza di una vera e propria ulcerazione della mucosa. Questo capita di solito soltanto quando il reflusso non viene curato nonostante il bambino abbia a lungo avuto sintomi molto evidenti. E, a dire il vero, nonostante io veda bambini con questo disturbo da vari decenni, non mi è mai capitato un caso con un sintomo del genere.

ALLERGIE AL CIBO

Mi capita molto spesso di visitare per la prima volta bambini che sono stati tenuti a dieta per mesi o anche per anni con motivazioni inconsistenti.

Magari perché hanno manifestato alcune chiazze di pelle rossa e ruvida o perché hanno qualche episodio sporadico di vomito o perché presentano due o tre scariche di feci molli al giorno o perché non sembrano crescere adeguatamente.

L’obiettivo di queste diete sarebbe non solo l’eliminazione dei sintomi ma anche quello della “prevenzione” di allergie future. Infatti ai genitori viene spiegato che, se uno di loro è un “soggetto allergico” (cioè ha qualche sintomo di allergia di qualsiasi tipo), il loro bambino potrebbe esserlo egli stesso e bisogna fare perciò ogni sforzo per evitare che sviluppi allergie gravi nel futuro.

Così, in forza di questo tipo di motivazioni, le diete vengono quasi sempre decise e mantenute malgrado l’inesistenza di prove convincenti delle presunte intolleranze e malgrado sia evidente che le restrizioni alimentari non portano alcun cambiamento nei sintomi. Il sacrificio insomma varrebbe la pena, perché può comunque salvare il bambino da un futuro rischioso.

Imparate a difendervi dalla faciloneria

Seguendo questi criteri, in pratica una percentuale spropositata (20-30% secondo le mie stime) di bambini italiani viene dichiarata allergica e messa prima o poi a dieta per lunghi periodi di tempo.

L’esperienza mi dice che, non solo tutto ciò è ingiustificato e costoso, ma che è profondamente dannoso dal punto di vista psicologico.

Quando vedo i genitori di questi bambini infatti, mi salta subito agli occhi la preoccupazione e l’incertezza che li domina. Fra l’altro, ciò che li tiene di più nel dubbio e nello sconforto è proprio il fatto che le diete non cambiano per niente i sintomi per i quali avevano consultato il pediatra, cosa che li porta a temere che il loro piccolo possa essere affetto da un problema grave e incurabile.

Si fa presto a capire come questi sentimenti spingano i genitori a comportamenti che pesano molto e negativamente sul benessere psicologico del bambino. Soprattutto li rendono eccessivamente protettivi nei suoi confronti, provocandogli così un senso di fragilità e di precarietà che potrebbe incidere profondamente sulla sua personalità e per sempre.

È innanzitutto per questo motivo che penso sia importante che la gente impari a difendersi dalla faciloneria con la quale nel nostro Paese si fa diagnosi di allergia alimentare e si costringe dei bambini perfettamente sani a diete costose e inutili.

I veri sintomi di allergia alimentare

Vediamo quali sono i sintomi che possono giustificare sul serio il sospetto di allergia alimentare, secondo i criteri considerati validi dal Comitato sulle Allergie dell’American Academy of Pediatrics.

I sintomi possono essere di due tipi:

  1. Acuti, cioè possono verificarsi nelle ore immediatamente dopo l’assunzione del cibo responsabile. In questo caso è in genere molto facile accorgersi del legame di causa-effetto fra l’assunzione del cibo e i sintomi conseguenti.
  2. Cronici, cioè possono svilupparsi lentamente, nel corso di settimane o mesi. In questo caso è facile cadere in errori di interpretazione e in eccesso di diagnosi.

Sintomi acuti

Sintomi gastrointestinali: I primi sintomi che in genere si verificano quando un bambino è allergico a un cibo sono, dopo pochi minuti o al massimo entro un paio di ore, un vomito violento e a getto e, subito dopo, una diarrea profusa, esplosiva, spesso contenente sangue. Questi sintomi in genere si attenuano nel giro di qualche ora o di una giornata al massimo dall’assunzione del cibo.

Sintomi cutanei: sempre entro pochi minuti o poche ore, compare sulla pelle in varie parti del corpo e su una superficie rapidamente sempre più estesa (non quindi solo sul viso o altre zone limitate di pelle) un’ urticaria che provoca molto prurito.

Sintomi respiratori: talvolta il bambino, oltre ai sintomi appena descritti, può anche manifestare un attacco di rinite allergica, con numerosi starnuti e profusa secrezione nasale o anche una forte difficoltà respiratoria dovuta a un broncospasmo causato dalla reazione allergica, sintomo che fa rassomigliare la reazione a un attacco di asma bronchiale.

Anafilassi: se i sintomi descritti qui sopra vengono ignorati o interpretati erroneamente e il bambino mangia di nuovo e più volte il cibo incriminato, può manifestarsi un vero e proprio shock anafilattico che può causare una grave perdita di pressione del sangue, fino all’arresto cardiaco e alla morte.

Cibi più frequentemente implicati nel causare sintomi acuti di allergia alimentare: Latte vaccino, uova, pesce, soia, arachidi, nocciole.

Sintomi cronici

Sintomi gastrointestinali: invece del vomito e diarrea acuta, a carico del sistema gastrointestinale si può verificare:

1. Enteropatia allergica

Caratterizzata da tutti i seguenti sintomi insieme:

  • vomito persistente
  • diarrea con più di sei scariche al giorno
  • dermatite atopica (vedremo cosa vuol dire fra poco)
  • segni chiari di denutrizione dovuti al danno intestinale provocato dall’allergia, danno da dimostrare con una biopsia intestinale
  • un pallore molto intenso, dovuto a una forte anemia causata da perdite di sangue microscopiche dalla mucosa intestinale danneggiata
  • edema in varie parti del corpo, dovuto a una perdita di proteine dall’intestino danneggiato e che fa spesso pensare erroneamente a una malattia renale.

È importante ribadire che, perché il medico sia giustificato nel sospettare l’enteropatia allergica, bisogna che ci siano tutti questi sintomi insieme e bisogna dunque evitare di confonderla o con altri disturbi non allergici, come il reflusso gastro-esofageo (caratterizzato solo da rigurgiti e vomito), o con la diarrea non specifica (una sindrome innocua caratterizzata da cinque sei scariche di feci molli al giorno in bambini che, per altro, stanno bene). Bisogna poi che la denutrizione di cui sopra non venga decretata seguendo l’impressione di una mamma preoccupata perché il piccolo non prende peso al ritmo che lei vorrebbe, ma che sia un vero arresto del peso e della statura e che il bambino appaia francamente anemico.

2. Colite allergica

La colite allergica è una vera e propria colite con scariche frequenti (più di sei sette al giorno) e contenenti sempre sangue. Piuttosto rara, la colite allergica è quasi sempre dovuta al latte vaccino e si manifesta quasi sempre in bambini al di sotto dei due anni.

Sintomi cutanei:

Le manifestazioni cutanee croniche delle allergie sono quelle che generano il numero maggiore di errori ed eccessi di diagnosi. Spesso infatti, come ho già accennato, si attribuisce ad allergia alimentare alcune macchie ruvide e rosse isolate qua e là sul corpo, macchie dovute il più delle volte a fattori irritativi del tutto estranei all’allergia.

Ma cosa si può considerare invece come un segno cutaneo vero di allergia? Vediamo.

Esiste un disturbo cutaneo chiamato “dermatite atopica” che può essere considerato un segno di allergia alimentare, ma solo in una limitata percentuale dei casi. Intanto come si manifesta la dermatite atopica, spesso diagnosticata a sproposito? Per poter dire che un bambino ha questa malattia della pelle ci devono essere cinque condizioni:

  • L’arrossamento deve estendersi su buona parte della superficie del corpo ed essere particolarmente intenso nella piega del gomito e dietro le ginocchia (quindi non solo sul viso, sulle mani e sulle gambe).
  • Deve causare un prurito intenso e costante, che porta il bambino a grattarsi ossessivamente.
  • La pelle perciò diventa squamosa e ruvida un po’ dappertutto, sintomo definito “lichenificazione”.
  • Questi sintomi devono tutti essere cronici, cioè presenti ininterrottamente da settimane o mesi.
  • Devono esistere quasi sempre nella famiglia persone che erano affette dagli stessi sintomi o che soffrono di fenomeni allergici molto seri, come asma bronchiale cronico. Seguendo questi criteri si può chiamare “atopico” solo dal 5 al 12 per cento dei bambini e non, come succede nel nostro paese, circa la metà dei bambini.

Inoltre, come ho accennato sopra, anche la presenza di una vera dermatite atopica non è necessariamente il sintomo di allergia a un cibo. Anzi, le statistiche più recenti dimostrano che soltanto circa il 30% dei bambini affetti da questo disturbo hanno un’allergia alimentare dimostrabile.

Ma, visto che i sintomi cronici e specialmente quelli cutanei sono facilmente equivocabili, quali sono le prove per dichiarare che un certo bambino è effettivamente allergico a un determinato cibo ed eliminarlo dalla sua dieta?

Quando si verificano i sintomi acuti che ho descritti sopra la diagnosi in genere è ovvia, perché i sintomi seguono immediatamente l’assunzione del cibo e sono inequivocabilmente legati ad esso.

Prova in doppio cieco col controllo del “placebo”

Il dilemma si pone invece quando i sintomi sono cronici, soprattutto se sono limitati alla pelle, ed è perciò più difficile legarli all’assunzione del cibo. In questo caso è solo la cosiddetta prova in doppio cieco con il controllo del placebo che può essere considerata una conferma certa e definitiva della diagnosi.

Ecco come si fa questa prova.

Quando un pediatra, sulla base dei sintomi che ho appena descritto, ha un valido motivo di sospettare che il piccolo è allergico a un determinato cibo, può decidere di provare ad eliminare dalla dieta del bambino quel cibo e solo quello, non dieci alimenti, come viene spesso fatto senza alcuna discriminazione.

Dopo circa due settimane di dieta, entra in gioco un secondo medico che, non conoscendo il tipo di dieta a cui è sottoposto il bambino (perché viene tenuto “cieco” rispetto a questa informazione), valuta la presenza o l’assenza di sintomi di allergia.

Subito dopo si introduce nella sua dieta una polvere irriconoscibile, che può essere o il cibo incriminato o un “placebo”, cioè una sostanza inerte. Sia i genitori del bambino che il secondo medico sono mantenuti “ciechi”, cioè inconsapevoli di cosa viene somministrato al bambino (ecco da dove deriva l’espressione “doppio cieco”). Questo medico dopo due settimane valuta eventuali cambiamenti dei sintomi del bambino.

Successivamente, sempre con le stesse modalità, si introduce l’altra “polvere” e, dopo due settimane, sempre lo stesso medico “cieco”, valuta i risultati.

Tutto questo complicato sistema di prove è necessario per evitare errori nella diagnosi dovuti al preconcetto che possono avere il medico e la mamma se conoscono la dieta assegnata al bambino.

Ebbene, i risultati di queste prove in doppio cieco mettono sempre in evidenza che una grossa percentuale di diagnosi di allergie alimentari sono false. Solo una piccola frazione di bambini (dal 2% all’8%) risulta alla fine effettivamente allergica a un cibo e solo il 10% circa di questi (cioè meno dell’un per cento del totale) è allergico a due alimenti insieme. L’allergia alimentare multipla (cioè a molti alimenti contemporaneamente), cosa diagnosticata ahimè con grande frequenza e faciloneria in questo paese, è una rarità estrema.

Prove alternative di intolleranza ai cibi

Come se non bastasse l’approssimazione e la leggerezza con cui molti medici tradizionali diagnosticano le allergie ai cibi e sottopongono moltissimi bambini a inutili sacrifici dietetici, da qualche anno sono apparse anche le prove di intolleranza delle medicine “alternative”, prime fra tutte quelle della medicina omeopatica.

Ebbene, provate a leggere con spirito critico la descrizione di un “autorevole rappresentante” di questo tipo di medicina. Spero riusciate a cogliere la sua irrazionalità quasi infantile. Le prove che egli elenca non hanno il benché minimo fondamento scientifico, cioè nessuna ricerca ha mai dimostrato la loro validità. Anche se alcune affermazioni degli omeopatici (come “l’allergia è una naturale difesa dell’organismo” o “terapia di sostegno immunologico”, o “la dieta si basa sul principio di ‘pulizia’ dell’organismo”) sono molto seducenti per i non esperti e possono confondere e affascinare, vi consiglio di conservare uno spirito scettico e razionale.

La medicina alternativa si pone nei confronti dell’allergia considerandola come una naturale difesa dell’organismo. Gli sforzi di omeopati e naturisti sono, quindi, indirizzati a rinforzare le difese immunitarie del bambino più che a curare la manifestazione allergica. Questo non vuol dire, però, che in caso di sintomi gravi non vengono utilizzati farmaci, bensì che un’eventuale terapia farmacologica per la medicina alternativa è associata a una terapia di sostegno immunologico.

Una terapia di sostegno immunologico che si fonda su due procedimenti:

  • la diluizione dell’allergene che comporta l’assunzione in gocce per bocca di quantità minime della sostanza verso la quale il bambino presenta l’allergia allo scopo di aumentare la tolleranza dell’organismo;
  • la somministrazione di minerali, sempre per bocca, come manganese, zinco e rame carenti oggi nell’alimentazione dei bambini e capaci di ridurre la reazione allergica.

Individuare l’alimento o la sostanza responsabile della manifestazione allergica anche in questo caso è alla base di ogni cura.

Per fare ciò la medicina alternativa si affida a due procedimenti: la dieta e i test diagnostici.

La dieta si basa sul principio di pulizia dell’organismo nel quale introdurre gli alimenti gradatamente (dieta di eliminazione) o a rotazione (dieta di rotazione).

(Nota di R. A.: le diete ad eliminazione e a rotazione sono state abbandonate dall’allergologia ufficiale perché inutili).

Il tempo di riposo e quindi il periodo in cui il bambino non mangia l’alimento che gli provoca allergia, consente di diminuire l’intensità della reazione e ottenere una maggiore tolleranza all’alimento.

Tra i numerosi test non convenzionali i più diffusi sono:

  • Il test Dria che evidenzia una variazione dello sforzo muscolare in seguito alla somministrazione di un alimento. Il bambino viene fatto sedere su uno speciale seggiolone, quindi gli viene legata una caviglia con una cinghia collegata a un computer e gli viene chiesto di contrarre il muscolo della coscia. Durante la contrazione gli viene messo in bocca, sotto la lingua, una soluzione dell’alimento sospetto. L’intolleranza all’alimento viene segnalata dal computer che registra una variazione nella contrazione del muscolo della coscia. Poiché per questo test è necessaria la collaborazione del bambino, è consigliato verso i cinque anni. I vantaggi che portano a scegliere queste test sono tre: non è cruento in quanto non prevede tagli sulla pelle o iniezioni, non ha effetti collaterali e, soprattutto, è veloce (basta un¹ora per testare oltre 30 alimenti).
  • Il test muscolare kinesiologico è un altro strumento che correla lo sforzo muscolare alla reazione allergica. In questo caso il cibo, oltre che messo in bocca, può essere fatto tenere in mano o si può chiedere al bambino di pensare all’alimento. L’esaminatore fa fare uno sforzo muscolare specifico e verifica se il muscolo ha una perdita di potenza. In caso positivo si stabilisce che l¹alimento testato è responsabile di allergia. Questo test presenta gli stessi vantaggi del test Dria e quindi è veloce, pratico e non prevede taglietti sulla pelle.
  • Il test citotossico a differenza degli altri si base su un’analisi del sangue. Il sangue viene messo in contatto con una serie di sostanze alimentari che in caso di allergia causeranno dei rigonfiamenti nei granulociti (un tipo di globuli bianchi) visibili al microscopio. Il vantaggio consiste nel fatto che può essere utilizzato anche per bambini molto piccoli. I tempi sono un po’ più lunghi a causa dell’analisi di laboratorio (esame del sangue).
  • Il test di riflesso del polso di Nogier segnala l’esistenza di particolari riflessi dell’organismo che possono essere messi in relazione con le sue variazioni di energia. Questo vuol dire che mettendo l¹alimento sospettato di provocare allergia a contatto con la pelle del bambino si avvertirà un’accelerazione delle pulsazioni nel polso. I vantaggi di questo test sono la velocità di esecuzione e l’immediatezza dei risultati.
  • I test elettrodermici come il Vega test segnalano la capacità della pelle di condurre energia. In questo caso un circuito elettrico nel quale è inserita una fialetta con l’alimento, viene messo a contatto con la pelle del bambino attraverso degli elettrodi. Le variazioni elettriche indicano la presenza di un’allergia o intolleranza all’alimento. Un test veloce che, però, solleva qualche dubbio anche nei medici specializzati in medicina alternativa.

 

ERUZIONI CUTANEE E PROBLEMI DELLA PELLE

ERUZIONI CUTANEE E PROBLEMI DELLA PELLE 

Le macchie sulla pelle del neonato “Quasi mai delle macchioline rosse sulla pelle del neonato sono dovute ad allergie…” Intanto comincerò a parlare delle macchie di vario colore che sono spesso presenti alla nascita in alcune zone. 

Macchie mongoliche 

Nell’area dell’osso sacro per esempio si trovano in moltissimi bambini delle chiazze bluastre a margini piuttosto irregolari e indefiniti, le cosiddette macchie mongoliche. La maggior parte dei genitori scambia inizialmente questo fenomeno per degli ematomi, magari dovuti al trauma del parto. Esso è dovuto invece ad un accumulo di melanociti (le cellule che producono il pigmento scuro della pelle) negli strati più superficiali della pelle. Le macchie mongoliche sono molto più comuni nel nostro Paese fra i bambini di estrazione mediterranea, ma debbono il loro nome al fatto che sono frequentissime nelle razze asiatiche. Esse tendono a scomparire del tutto nel giro dei primi due anni di vita. 

Nevi capillari 

I nevi capillari sono delle macchie di colore dal rosa al violaceo, presenti alla nascita nella maggioranza dei neonati. Si manifestano soprattutto sulle palpebre, sul centro della fronte (fra le sopracciglia) e sulla nuca, all’attaccatura dei capelli. La loro struttura è costituita da capillari sanguigni dilatati che tendono a scomparire, senza lasciare alcuna traccia, entro i primi due anni di vita. 

Eritema tossico 

Nei primi giorni di vita si manifesta molto spesso un’eruzione di puntini rossi, diffusi su tutto il corpo. Essi assomigliano a punture di insetti, ma non sembrano dare alcun fastidio al piccolo. Questo fenomeno si chiama eritema tossico, non se ne conosce la causa e scompare entro la prima settimana. 

Acne neonatale 

Dalla terza, quarta settimana fino ai due mesi circa molti lattanti presentano un’eruzione sulle guance che, per la sua somiglianza con l’acne degli adolescenti, è chiamata acne neonatale. Essa viene spesso attribuita a un’intolleranza al latte, persino a quello materno. Invece, questo fenomeno non ha niente a che fare con il tipo di alimentazione ed è invece causato dalla scomparsa degli ormoni materni (passati dalla placenta) dal suo organismo, cosa che determina una situazione analoga alle variazioni ormonali dell’adolescenza.