PROBLEMI COMPORTAMENTALI: BAMBINI PICCOLI
Nascosto
LA LOTTA PER IL POTERE
Se si volesse dare il perfetto esempio di una persona ossessionata dal potere, il più calzante sarebbe forse quello di un bambino fra i due e i tre anni. In questo periodo, infatti, anche il bambino più placido e ragionevole diventa spesso il classico “bastian contrario”. Assume dunque l’aria di voler decidere sempre lui, ad ogni costo, e comincia a contrapporsi ai genitori per principio, costringendoli a negoziare su tutto. Il guaio è che a lui non sta mai bene ciò che gli viene proposto e i genitori si sentono sempre più esasperati dal suo atteggiamento. Un papà mi ha raccontato che, portato ai limiti della pazienza da suo figlio, a un certo punto gli ha detto: “Va bene, allora fai quello che vuoi!” Il piccolo allora si è buttato a terra e ha cominciato a piangere e a dimenarsi urlando: “Ma io non voglio fare quello che voglio!”. Quest’episodio dimostra in maniera emblematica il miscuglio di sentimenti contradditori che si affollano spesso nella mente di un bambino di due anni. Tante volte egli non sa cosa vuole, ma lo pretende lo stesso: ciò che gli interessa è imporsi, senza un vero perché.
SCOPPI D’IRA
Gli strumenti di potere di un bambino di due anni rimangono quelli accumulati nel periodo precedente: pianti, urla, schiaffi, morsi, trattenere il respiro, vomito, sbattere la testa per terra o sul muro, chiamare “cattivi” o peggio i genitori, l’insistenza, ecc.
A questi si aggiungono le “tempeste di temperamento”, nelle quali si butta a terra, urla, si dimena, soprattutto se è in pubblico, dove sa che la scena crea imbarazzo e sortisce un effetto sicuro.
Nonostante l’ovvia mancanza di ragionevolezza, un atteggiamento del genere nel bambino di due anni è del tutto legittimo e ha anche una sua precisa giustificazione. A quest’età sta iniziando a sviluppare uno strumento molto importante di relazione, l’assertività, cioè la capacità di lottare per imporsi nel confronto con gli altri
BATTAGLIA PER IL CIBO
A forza di vedere casi simili, talvolta un medico fa la diagnosi alla prima occhiata. Questo è ciò che mi capitò parecchi anni fa vedendo apparire nella mi stanza Magdalena, una bambina di quattro anni piuttosto esile, figlia di due colleghi. Dalle sue dimensioni e dall’espressione ostinata, capii subito che la mamma si sarebbe lamentata delle abitudini alimentari della piccola, tant’è vero che sorpresi la signora dicendole: “Conosco il motivo per cui mi ha portato Magdalena. Lei è preoccupata perché sua figlia non mangia….”.
Ora, il timore di questa madre è sicuramente uno degli argomenti più comuni per cui vengo ansiosamente consultato da moltissime altre mamme. Già dalle prime settimane queste donne sono talmente preoccupate che il loro piccolo non si nutra abbastanza, che, temendo di non avere latte, spesso passano precocemente ad un allattamento artificiale, a detrimento della salute del piccolo.
Tuttavia, è dopo l’inizio dello svezzamento che la paura di una possibile denutrizione diventa origine di comportamenti che, a mio avviso, configurano un serio abuso di potere ai danni del bambino. Il piccolo viene spesso incoraggiato con vari trucchi o, peggio, costretto a mangiare controvoglia, ingozzato e tormentato per ore da genitori resi implacabili dai propri timori.
Per molti bambini (soprattutto bambine) questa croce andrà avanti per tutta l’infanzia. Quanti di noi ricordano le angherie subite per questa ragione? Il segnale che viene dato ai bambini così trattati è chiaro: “Non mi fido di te, non puoi sopravvivere basandoti sui tuoi istinti”. Fra l’altro, tutto ciò priva il bambino di un piacere, quello del cibo, essenziale per la sua crescita emotiva. Lo riempie inoltre di un senso di impotenza, frustrazione e rabbia e, peggio, lo spinge ad una dipendenza eccessiva dalla mamma.
Bisogna tener presente che nella fase che va dal compimento del primo anno fino alla pubertà (intorno agli undici dodici anni), la velocità di crescita in genere rallenta molto rispetto a prima e dunque un bambino deve mangiare decisamente meno.
Alcuni, soprattutto le femmine, vanno avanti per giornate intere con quantità di cibo che ai genitori sembrano assolutamente insufficienti, soprattutto perché i loro gusti sono anche molto difficili e monotoni. Tuttavia, come ho già spiegato, le preoccupazioni dei genitori sono di solito del tutto infondate e, nella mia esperienza, questi bambini finiscono sempre per essere ben nutriti e crescere adeguatamente, secondo le loro caratteristiche ereditarie. Se invece esiste un problema di salute che non permette loro di mangiare e crescere bene, tale problema deve manifestarsi con dei sintomi riconoscibili e deve essere risolto con l’aiuto del pediatra.
Comunque, in nessun caso, anche se avessero effettivamente un problema di nutrizione e di crescita, è giustificato cercare di convincerli o, peggio, forzarli a mangiare contro la loro volontà. E’ una consuetudine crudele e controproducente, un vero abuso, che porta sempre una serie di conseguenze negative sul loro rapporto col cibo e sulla loro personalità.
COMPORTAMENTI AGGRESSIVI
Dai sei ai dodici mesi
Dai sei ai dodici mesi il bambino fa progressi importanti, che rendono i suoi strumenti per esercitare pressione più numerosi e raffinati.
Intanto le sue abilità motorie subiscono un netto incremento. Impara ad usare le mani e le braccia in maniera sempre più efficace ed energica, riuscendo man mano ad afferrare oggetti, a trattenerli, a rilasciarli, a scagliarli ecc. A un certo punto, verso gli otto mesi, inizia ad assumere un buffo atteggiamento di minaccia, tendendo le braccia in avanti e agitandole a pugni chiusi, con le labbra corrucciate e un’espressione aggressiva. In seguito, chi tenta di bloccarlo, o di trattenerlo dal fare qualcosa di “proibito” rischia prima o poi di prendersi uno schiaffo, un graffio o un morso.
Un altro modo per opporsi al controllo dei genitori è quello di… scappare. Gattonando sempre più agilmente, infatti, può divincolarsi e sfuggire alla mamma, che cerca di afferrarlo per cambiarlo, o dargli da mangiare, o metterlo a letto.
Durante questo stesso periodo molti bambini scoprono, per intuito o per caso, anche altri modi, sostanzialmente ricattatori, per contrastare il potere degli adulti. Qualche piccolo, per esempio, alla fine di un pianto di rabbia particolarmente intenso, vomita tutto ciò che ha mangiato. Oppure, nelle medesime circostanze, trattiene il respiro così a lungo da diventare cianotico, o addirittura svenire per qualche secondo.
Altri bimbi, sempre perché frustrati da un’intromissione dei genitori, sbattono ripetutamente e rumorosamente la fronte contro una superficie dura (come il pavimento o una parete), o, da seduti, si catapultano all’indietro stizziti, battendo l’occipite per terra; oppure si schiaffeggiano vigorosamente il viso e il capo. Ritengo sia facile costatare come tutti questi comportamenti, che gli psicologi definiscono “passivo-aggressivi”, possano risultare ottimi mezzi di pressione.
Ora, sebbene un adulto possa contrastare agevolmente i vari mezzi a disposizione del bambino, a vantaggio di quest’ultimo giocano due fattori decisivi: da una parte l’esitazione dei genitori ad usare la propria forza ed esperienza contro un essere tanto più piccolo e debole di loro, la paura di fargli male, di traumatizzarlo, di farlo sentire abbandonato, deluso; dall’altra l’inesauribile tenacia con la quale il piccolo persiste nella sua “lotta”, che può indurre i genitori a cedere anche solo per stanchezza o per quieto vivere.
Nel secondo anno l’ulteriore sviluppo delle capacità motorie e comunicative permette al piccolo di opporsi più efficacemente al potere dei genitori.
Per esempio, potendo camminare più speditamente, correre e arrampicarsi, le sue possibilità di sfuggire alla mamma e di raggiungere i posti e gli oggetti proibiti si moltiplicano. Oltre agli schiaffi i ai morsi poi, può anche cominciare a sferrare calci poderosi a chi lo ferma o gli nega qualcosa.
Un’altra arma che si va potenziando enormemente in questo periodo e che troveremo sempre più sofisticata in seguito è l’insistenza: quando il piccolo cerca di raggiungere un determinato obbiettivo, lo indica con la mano, piagnucola, strattona il genitore per condurlo dove vuole, salta come un grillo, urla, si butta per terra, picchia, tira calci, ecc. tutto con una perseveranza incredibile.
Spesso approfitta del fatto che il genitore è occupato a fare qualcos’altro o è imbarazzato dalle sue scene di fronte alla gente per indurlo a cedere.
Nel suo armamentario “bellico”, inoltre, irrompono alcune parole chiave, che egli impara presto ad usare nelle situazioni appropriate. “Cattiva/o!” o “Brutto/a!”, per esempio, sono formule d’attacco, che egli spesso rivolge puntando il ditino minaccioso a chiunque cerca di impedirgli di agire a suo piacimento.
Ma è il “NO” la parola che gli permette di esprimere la sua ribellione in maniera più perentoria. Fra i diciotto mesi e i due anni, una volta scoperto il potere di questa sillaba, ne farà un uso sempre più frequente, fino a portare la sfida a livelli di vera e propria guerra, allo scoccare dei due anni.
Dai due ai tre anni: tempi di guerra
Se si volesse dare il perfetto esempio di una persona ossessionata dal potere, il più calzante sarebbe forse quello di un bambino fra i due e i tre anni. In questo periodo, infatti, anche il bambino più placido e ragionevole diventa spesso il classico “bastian contrario”.
Assume dunque l’aria di voler decidere sempre lui, ad ogni costo, e comincia a contrapporsi ai genitori per principio, costringendoli a negoziare su tutto. Il guaio è che a lui non sta mai bene ciò che gli viene proposto e i genitori si sentono sempre più esasperati dal suo atteggiamento. Un papà mi ha raccontato che, portato ai limiti della pazienza da suo figlio, a un certo punto gli ha detto: “Va bene, allora fai quello che vuoi!” Il piccolo allora si è buttato a terra e ha cominciato a piangere e a dimenarsi urlando: “Ma io non voglio fare quello che voglio!”. Quest’episodio dimostra in maniera emblematica il miscuglio di sentimenti contraddittori che si affollano spesso nella mente di un bambino di due anni. Tante volte egli non sa cosa vuole, ma lo pretende lo stesso: ciò che gli interessa è imporsi, senza un vero perché.
Gli strumenti di potere di un bambino di due anni rimangono quelli accumulati nel periodo precedente: pianti, urla, schiaffi, morsi, trattenere il respiro, vomito, sbattere la testa per terra o sul muro, chiamare “cattivi” o peggio i genitori, l’insistenza, ecc.
A questi si aggiungono le “tempeste di temperamento”, nelle quali si butta a terra, urla, si dimena, soprattutto se è in pubblico, dove sa che la scena crea imbarazzo e sortisce un effetto sicuro.
Nonostante l’ovvia mancanza di ragionevolezza, un atteggiamento del genere nel bambino di due anni è del tutto legittimo e ha anche una sua precisa giustificazione. A quest’età sta iniziando a sviluppare uno strumento molto importante di relazione, l’assertività, cioè la capacità di lottare per imporsi nel confronto con gli altri
Per un genitore questo periodo è, per usare un eufemismo, irto di difficoltà; tanto che gli americani, per dare un’idea del disagio che può provocare, lo hanno bollato con l’espressione
“i terribili due anni”. Esiste però una consolazione. Con l’arrivo del terzo compleanno, salvo caratteri particolarmente ostinati o complicazioni causate da una cattiva gestione della fase precedente, la lotta di potere si va attenuando. Ma, attenzione, il confronto continua..
NON ASCOLTA
L’IMPORTANZA DI STABILIRE REGOLE E LIMITI
“Quante volte ti ho detto che devi mettere a posto i tuoi giocattoli!? Devo buttarteli via per farmi ascoltare?!” Ecco uno dei modi in cui io o mia moglie, esasperati perché la nostra primogenita non ci ascoltava, tentavamo talvolta di ottenere la sua obbedienza. Spesso la minaccia funzionava, nel senso che mia figlia, preoccupata che buttassimo davvero i suoi giocattoli, si affrettava a metterli a posto. Il giorno dopo però il problema si ripresentava tale e quale, creando ancora più nervosismo e magari spingendoci a ricorrere a maniere ancora più forti. Eppure io e mia moglie, convinti “sessantottini”, non avremmo mai pensato di usare le minacce o altri mezzi autoritari; anzi, alla nascita di nostra figlia eravamo sicuri che saremmo stati capaci di stabilire con lei un rapporto “paritario”.
Le intenzioni erano ottime, ma evidentemente i sistemi con i quali cercavamo di metterle in atto erano inefficaci. L’unica consolazione a cui potevo aggrapparmi personalmente era che la buona parte dei genitori che mi frequentava come pediatra si lamentava esattamente per gli stessi motivi. Non passava giorno infatti che una mamma o un papà non si sfogassero con me perché il figlio non li ascoltava, oppure perché, sebbene già grande, non sembrava avere alcun senso di responsabilità, di collaborazione o spirito di sacrificio.
Ebbene, l’esperienza e i miei studi mi hanno insegnato che questi atteggiamenti dei figli non sono affatto inspiegabili o inevitabili, ma sono la conseguenza ovvia di alcuni errori che quasi tutti commettiamo:
- il primo è quello di non incentivare efficacemente la loro autonomia
- il secondo è quello di non essere abbastanza coerenti e determinati nell’imporre loro dei limiti e delle regole e comunque di non cominciare a farlo abbastanza presto.
- il terzo è quello di usare metodi o troppo blandi o troppo drastici nel tentativo di farsi ascoltare, perdendo così credibilità e autorevolezza.
E’ essenziale che siano i genitori a stabilire regole e limiti
Quando la mia primogenita, a otto-nove mesi, desiderosa di restare con noi adulti, piangeva di rabbia al momento in cui veniva messa nel suo lettino, il mio primo impulso era quello di non cedere alle sue proteste e di lasciare che si addormentasse da sola. I sensi di colpa però e la solita osservazione dei nonni: “Non la far piangere, è piccola!” avevano buon gioco. La nostra bimba così imparò fin da quella tenera età che con il pianto (modulandone opportunamente l’intensità) poteva superare abbastanza facilmente qualsiasi barriera. Ebbene, Dio solo sa quanto disagio questo tipo di condizionamento ha creato in seguito a noi genitori e soprattutto a lei stessa e quanto duro lavoro e sofferenza le è costato acquistare, con grande ritardo, il senso della realtà e dei suoi limiti che le era stato risparmiato all’inizio.
Questa difficile esperienza e poi gli studi mi hanno insegnato innanzitutto che è un errore fondamentale rimandare a lungo l’imposizione di regole e limiti, nel timore che un bambino nei primi anni di vita sia ancora troppo piccolo per tollerarli. Mi sono fermamente convinto che invece sia indispensabile farlo presto e che siano i genitori (e non altri) i più indicati a cominciare. Questa è la strada più opportuna perché un bambino si abitui da subito all’idea che anche chi lo ama di più non ritiene sempre giusto soddisfare i suoi bisogni o i suoi desideri e, malgrado la sua tenera età, non esita, quando è necessario, a imporgli frustrazioni e sacrifici. Ed ecco i lati positivi di un’operazione del genere.
I vantaggi di stabilire in tempo regole e limiti:
1) permette a un bambino di acquisire il senso della realtà, con i suoi limiti e le sue durezze, il prima possibile e nell’atmosfera più favorevole: nell’ambito cioè della protezione dei genitori.
2) Lo aiuta ad acquisire quell’autodisciplina e perseveranza che gli permetterà di raggiungere gli obbiettivi importanti della vita senza farsi scoraggiare dagli ostacoli e dai sacrifici che è comunque destinato a trovare sulla sua strada.
3) gli dimostra che i genitori si fidano di lui, cioè lo ritengono capace di superare le delusioni che sono costretti a infliggergli. E questa dimostrazione di fiducia contribuisce decisamente a creargli un’immagine positiva di se stesso, cioè l’amor proprio.
Quando faccio questo tipo di considerazioni, molti genitori si dichiarano comunque perplessi e piuttosto esitanti ad adottare degli atteggiamenti fermi e coerenti nei riguardi di un bambino piccolo, che essi temono sia ancora troppo fragile e impreparato per tollerarli.
Di fronte alle loro obiezioni, io spesso li spingo a riflettere con questa considerazione: “Provate a immaginare di avere una nidiata di parecchi figli e che quello che avete adesso, invece di essere l’unico, sia il quinto di essi. Sareste forse in grado di dargli tutte le attenzioni che gli concedete ora e di rispondere alle sue richieste con altrettanta sollecitudine? E se, come è ovvio, foste costretti a imporgli invece molti limiti e regole, credete che per questo egli diventerebbe una persona peggiore?”
La conclusione che raggiungiamo insieme invariabilmente è che l’esperienza dimostra esattamente il contrario e cioè che il “quinto” figlio di una famiglia è generalmente una persona solida, gioviale e indipendente.
(Estratto di “Come parlare ai figli”)