Questa è la relazione che ho preparato per l’Accademia Lancisiana di Roma su ciò che penso a proposito di questo argomento.
Premetto che la mia formazione è avvenuta negli STATI UNITI, Paese nel quale è tradizione per il pediatra prepararsi a seguire con competenza anche l’aspetto psicologico del bambino.
Inoltre, dopo il mio ritorno in Italia, ho voluto sottopormi per alcuni anni ad analisi.
Infine mi sono specializzato in quella materia che in inglese viene chiamata “parenting” (l’arte di fare il genitore).
Potrei dire dunque che sono un pediatra che si occupa del benessere psicologico dei suoi piccoli pazienti per lo meno quanto cura il loro benessere fisico. Con questo spirito ho seguito tante famiglie della nostra città negli ultimi venticinque anni.
Nella mia veste di pediatra a contatto diretto con le famiglia, ho l’opportunità di osservare lo sviluppo di un gran numero di bambini durante tutta l’infanzia e la prima adolescenza e notare gli effetti che, almeno apparentemente, i comportamenti dei genitori hanno sullo sviluppo della loro personalità.
Avendo una clientela mista, di varie nazionalità, ho anche modo di confrontare i diversi percorsi, legati ai diversi condizionamenti che i bambini subiscono nelle varie culture.
Oggetto di questa relazione sono appunto le mie osservazioni sugli effetti che certi atteggiamenti di buona parte dei genitori nella nostra società, atteggiamenti a mio avviso troppo protettivi, hanno sulla personalità dei nostri figli.
Io ritengo che tali effetti rassomiglino, anche se in forma più lieve, ai sintomi di un disturbo della sfera psico-sociale descritto molti anni fa da due pediatri americani: la cosiddetta “Sindrome del bambino vulnerabile”.
Partirò dalla descrizione di questa sindrome e cercherò poi di mostrare le analogie con ciò che succede ai nostri figli come conseguenza dell’eccesso di preoccupazioni parentali.
Vi accennerò di seguito ai miei sforzi per aiutare i genitori ad evitare gli atteggiamenti responsabili della “vulnerabilità” oggetto di questa relazione.
La sindrome del bambino vulnerabile
Nel 1964 Green e Solnit, due pediatri statunitensi, pubblicarono sulla rivista Pediatrics un lavoro che è rimasto una pietra miliare nel campo della psicologia dell’età evolutiva.
In quel lavoro parlarono per primi di un disturbo della relazione genitori-figli che chiamarono “sindrome del bambino vulnerabile”. Si tratta di una situazione, non rara, per la quale un bambino, avendo subito una malattia o un incidente che ha messo in grave pericolo la sua integrità nei primi mesi, pur godendo in seguito di perfetta buona salute, viene percepito comunque per sempre dai genitori come un bambino gravemente a rischio.
Come conseguenza dell’atteggiamento dei genitori, il bambino “vulnerabile” soffre di una serie di disagi e difficoltà di adattamento che finiscono per confermare le profezie parentali più pessimistiche.
Green e Solnit identificarono quattro sintomi principali come caratteristici della “Sindrome del bambino vulnerabile”:
- una difficoltà molto maggiore della norma nel separarsi dai genitori;
- un comportamento infantile improprio per l’età;
- delle preoccupazioni precoci ed eccessive per la vulnerabilità del proprio corpo;
- un rendimento scolastico molto al di sotto delle proprie possibilità intellettuali.
Nel loro articolo i due pediatri individuarono anche alcuni dei fattori che, oltre all’evento scatenante, potevano contribuire alla nascita di questo disturbo. E sottolinearono innanzitutto l’importanza determinante del modo in cui i genitori vengono informati da noi medici sulle condizioni del bambino nei momenti cruciali di quell’evento.
La storia di Giacomo, Deborah e Pino
A questo punto credo sia più interessante spiegarmi con un esempio concreto, raccontandovi la storia di Giacomo, un mio piccolo paziente destinato a diventare “vulnerabile” appunto.
Giacomo è figlio di Deborah, scenografa di origine nordamericana, e Pino, logopedista.
Il problema di Giacomo inizia durante la gravidanza, quando un’analisi del sangue di Deborah evidenzia la possibile presenza di un’infezione da citomegalovirus, infezione che può portare gravi danni al cervello, all’udito e alla vista del nascituro. Malgrado le statistiche mostrino che nel modo e tempi in cui l’infezione si manifesta in Deborah i rischi di danni al feto sono estremamente limitati, il primario ginecologo consiglia un’interruzione di gravidanza.
Questo, a mio avviso, seguendo la tendenza che molti medici hanno di “coprirsi le spalle” prospettando ai pazienti il peggiore degli scenari possibili.
Sebbene Deborah e Pino decidano di non seguire il consiglio, credo ciascuno possa intuire quale angoscia esso provochi in loro. “La gravidanza” mi ha detto Deborah, “è stata un’esperienza disastrosa…”.
La nascita di Giacomo invece arriva come un grande sollievo, perché il piccolo appare subito perfettamente sano e normale. Ma pochi giorni dopo, alla dimissione dall’ospedale, una pediatra rompe l’incantesimo. Innanzitutto non fa trovare pronti, come promesso, i risultati dei test fatti sul piccolo e poi colpevolizza la mamma che, secondo lei, “insiste caparbiamente ad allattare al seno malgrado il bambino sia disidratato”.
Il commento della pediatra, alla luce del racconto della mamma, appare infondato, ma, com’è ovvio, riaccende in Deborah e Pino il terrore che Giacomo possa morire o rimanere danneggiato permanentemente. Il papà, parlando di questa esperienza, dice: “Abbiamo vissuto un’uscita dall’ospedale da incubo. Mi sono portato a casa un “pacchetto” che mi faceva paura, perché poteva essere danneggiato, avariato”.
Poi, l’attesa dei famosi risultati pendenti: nessun pediatra chiama i genitori o fa alcuno sforzo per accelerare i tempi delle risposte, anzi tutto avviene in ritardo e il silenzio dei medici è totale.
I genitori insomma vivono per tre mesi, prima dell’incontro con me, dominati da un’angoscia profonda perché convinti della possibilità che il loro piccolo Giacomo rischi di essere colpito da ritardo mentale, sordità, cecità o persino di morire.
Ancora oggi, dopo aver stabilito da vari mesi con me un rapporto terapeutico e dopo mille prove che Giacomo è del tutto sano, il papà si esprime in questo modo: “Stiamo troppo con lui e gli concediamo troppo, come se lo dovessimo risarcire, perché, comunque, basta un nulla e ripiombiamo nella paura e nel sospetto che qualcosa gli possa accadere. Perché non parla ancora, per esempio? E’ perché è bilingue, o perché non ci sente?…
I genitori di Giacomo insomma, colpiti profondamente dalla possibilità che egli muoia o rimanga gravemente danneggiato alla nascita, hanno nei suoi confronti delle reazioni comprensibili e prevedibili.
Da una parte il loro livello di allarme e protettività sale al massimo. D’altra parte, Pino ha una reazione di rifiuto, di paura verso il “pacchetto avariato” che si è portato a casa. La possibilità concreta di perdere Giacomo crea in lui una sorta di reazione di difesa: meglio non attaccarsi troppo a un bambino che potrebbe un giorno venire a mancare.
In sintesi, si avverano proprio gli elementi dai quali potrebbe facilmente scaturire in Giacomo la “sindrome del bambino vulnerabile.
Innanzitutto la difficoltà a sviluppare un attaccamento affettivo e l’eccesso di protezione potrebbe costituire un forte ostacolo al processo di “separazione-individuazione”. Si delineerebbe così il primo dei sintomi: la difficoltà a separarsi.
Poi, il comportamento impropriamente infantile che ne potrebbe seguire costituirebbe la realizzazione di una profezia implicita nell’atteggiamento dei genitori. “Non ce la farai a crescere, perché non ne hai le risorse …”.
Inoltre, l’eccessiva preoccupazione per le malattie potrebbe essere un altro sintomo della paura di non essere capace di difendersi dalle calamità sempre imminenti, perché fondamentalmente incapace a sopravvivere .
Infine il cattivo rendimento scolastico che potrebbe verificarsi in seguito sarebbe un altro segno della difficoltà ad affrontare le sfide della vita, a causa di una sensazione costante di inadeguatezza, ecc…
Ovviamente, il mio obbiettivo principale con Deborah e Pino è appunto quello di aiutarli ad evitare che queste conseguenze si verifichino e vedremo come.
Il nostro bambino “iperprotetto”
Ma cosa ha a che fare tutto ciò con i bambini che non hanno storie come quella di Giacomo? Come può un bambino perfettamente sano entrare in un percorso analogo a quello del “bambino vulnerabile” di Green e Solnit?
E qui entro nella seconda parte della mia relazione.
Confrontando il comportamento dei genitori nelle diverse culture, ho sempre notato che nella nostra società esiste una tendenza molto più spiccata che nelle altre di cui ho esperienza diretta (e cioè le nordeuropee e le nordamericane) a vedere nella vita dei bambini rischi gravi, che sono effettivamente inesistenti, o a sopravvalutare quelli reali.
Queste paure, che io considero vere e proprie fobie collettive, pur essendo destituite di fondamento scientifico, sono così profondamente radicate nella nostra cultura che anche le persone più avvedute, persino molti medici, faticano a metterle in discussione.
A mio avviso esse inducono i genitori ad assumere atteggiamenti che ritengo troppo protettivi e che producono una “vulnerabilità” simile, seppure meno profonda e drammatica, a quella che ho appena descritto.
Ecco alcuni esempi di queste fobie:
La fobia per il freddo
Per esempio, le mamme qui da noi coprono i loro neonati molto di più del necessario (e, a dire il vero, anche i loro figli più grandicelli!) per la paura, infondata, che l’esposizione a un po’ d’aria fresca possa causare le cosiddette malattie da raffreddamento.
Questa consuetudine causa un’inutile sofferenza ai nostri piccoli. Vedo fin troppo spesso bambini con la pelle coperta da un’eruzione chiamata “sudamina”, causata dalla profusa sudorazione legata all’eccesso di vestiario.
Quando spoglio questi bambini per visitarli, vi confesso che talvolta mi sento come un animalista che apre la gabbia troppo stretta di un animale tenuto impropriamente in cattività. E loro mi rispondono spesso con…. un sorriso di sollievo.
Fra l’altro riescono a toccarsi finalmente! Possono così scoprire se stessi, esercitare la propriocezione, estremamente importante per lo sviluppo di un senso di identità fisica.
Per un bambino poi camminare a piedi nudi sul pavimento è un’altra esperienza essenziale, sia per motivi pratici che psicologici.
Innanzitutto infatti gli permette di padroneggiare i movimenti molto meglio che calzando le scarpe. Il piede nudo “sente” il pavimento e manda al cervello informazioni importanti per il mantenimento dell’equilibrio. Inoltre aderisce meglio e non rischia di scivolare con facilità come succede con le scarpe o le calze.
D’altra parte, percepire il proprio piede nudo a contatto con il pavimento è parte dell’importantissima esperienza “propriocettiva” a cui ho accennato poco fa. Ma tutto questo passa in seconda linea rispetto alla fobia che il piccolo possa prendere freddo ai piedi e quindi ammalarsi di chissà cosa…
Fobia per lo sporco
Quando, verso i sette mesi circa, il bambino dovrebbe essere lasciato a terra perché impari a strisciare o gattonare, la mamma nostrana invece spesso non gli permette di farlo per evitare che tocchi il pavimento con le mani.
La fobia che possa sporcarsele e infettarsi mettendole in bocca prevale sulla considerazione che l’esperienza esplorativa ha un’importanza enorme per lo sviluppo mentale del bambino.
Gattonando in libertà, infatti, il piccolo comincia ad acquisire la “competenza” che gli permetterà di svolgere le attività successive con maggiore sicurezza e destrezza. Ostacolarlo in questa fase vuol dire ritardare e danneggiare il normale processo di sviluppo psicomotorio.
E cosa dire della convinzione che il contatto con gli animali domestici possa causare ogni sorta di pericolosa infezione, per cui ai nostri piccoli viene impedito di toccare o baciare gli animali che sono stati spesso introdotti in casa proprio come un regalo per loro? Anche in questo caso, una fobia in gran parte infondata, priva i nostri bambini di un’esperienza importante e contagia anche loro con un timore eccessivo della natura…
Fobia per gli incidenti banali
Poi, durante i primi tentativi di deambulazione del bambino, si ha una paura esagerata delle conseguenze di una banale caduta o di qualche inevitabile urto alla testa con relativo bernoccolo, per cui egli viene marcato in maniera asfissiante.
Quando poi, per un momentaneo allentamento della marcatura, cade o batte rumorosamente la testa contro un tavolo, tutti lo soccorrono immediatamente allarmati, spaventandolo.
Gli si dà così un’impressione di costante precarietà. Gli si trasmette una paura eccessiva del mondo circostante.
Fobia per la denutrizione
Dopo l’inizio dello svezzamento, se un bambino non accetta i cibi solidi o non ha fame, per la fobia di un’improbabile denutrizione, viene spesso “incoraggiato” o, peggio, costretto a mangiare contro voglia, con grave pregiudizio per il suo rapporto con il cibo.
Per molti bambini questa croce andrà avanti per tutta l’infanzia. Quanti di noi ricordano le angherie subite per questa ragione? Il segnale che viene dato ai bambini così trattati è chiaro: non mi fido di te, non puoi farcela con le tue risorse.
Fra l’altro, questo atteggiamento di moltissimi genitori priva il bambino di un piacere, quello del cibo, essenziale per la sua crescita psicologica.
Potrei andare avanti con questo elenco, ma non credo che sia necessario allungarlo troppo per dimostrare il mio punto. Ciò che a me appare singolare è anche la persistenza storica di queste fobie nella nostra cultura e l’omogeneità con cui sono presenti in tutte le regioni del nostro paese.
In questo insomma siamo davvero una nazione!
Un elemento che rinforza molto i comportamenti che ho descritto è che la mamma italiana che volesse sfuggire a questa logica è fortemente ostacolata da uno stretto controllo sociale. Le poche che tentano di imitare le madri nordeuropee allentando il controllo assillante sui figli si sentono spesso giudicate dal contesto sociale, come stravaganti e “snaturate”.
Eppure a me sembra che proprio questo dover essere sempre all’erta, sempre in ansia, per essere approvate dal parentado provoca in loro un’enorme fatica e talvolta una sensazione di rigetto, che la fa comportare nei confronti dei figli in maniera un po’ ambivalente, ambigua.
Ma quanto rassomiglia questo alle premesse che portano alla sindrome del bambino vulnerabile!
Da una parte l’iperprotettività dovuta a una sostanziale mancanza di fiducia nelle risorse del bambino e, dall’altra, una sorta di ambiguità affettiva.
A me sembra che noi medici e la società in generale non prestiamo affatto attenzione a quanto sia notevole l’impatto psicologico di tutto questo, impatto a mio avviso già ben visibile da quando i nostri bambini hanno meno di un anno.
A dire il vero a me sembra che una buona parte di loro sia appunto affetta da una “piccola sindrome del bambino vulnerabile”, sorella minore di quella che vi ho descritto poco fa, ma che produce comunque disturbi analoghi della relazione con i genitori.
Abbiamo detto, per esempio, che la “Sindrome del bambino vulnerabile” si manifesta con una forte difficoltà alla separazione dai genitori. Ecco come questo sintomo si rivela nel comportamento usuale del bambino italiano nel mio studio, in un contesto cioè che non gli è perfettamente familiare, ma che comunque egli conosce già abbastanza bene e non dovrebbe sembrargli ostile:
Difficoltà a separarsi
Piange terrorizzato durante la visita, contrariamente a ciò che succede ai suoi coetanei nordamericani o nordeuropei, che sembrano fidarsi molto di più di se stessi e degli adulti al di fuori della famiglia. Anche quando supera questo terrore, generalmente ben oltre i due anni, vuole che la mamma o il papà gli tengano la mano mentre lo visito.
Anche dopo i tre anni ha difficoltà a lasciare i genitori anche solo per pochi minuti. Eppure potrebbe andare nella sala d’attesa piena di giochi, con una mia assistente a fargli compagnia. E’ raro che io veda i suoi coetanei nordeuropei e nordamericani fare altrettanto.
Ecco poi il comportamento infantile inappropriato per l’età, analogo al secondo sintomo della sindrome del bambino vulnerabile:
Comportamento infantile
Il bambino italiano medio non tenta neanche di spogliarsi e rivestirsi da solo a un’età nella quale i suoi coetanei nordamericani o nordeuropei lo fanno agevolmente già da tempo.
Pretende molte più attenzioni e aiuti di quanto se ne aspetti il tipico coetaneo nordeuropeo e nordamericano. Tollera meno le frustrazioni, che lo spingono facilmente alla “disperazione”.
Per quanto riguarda gli altri due sintomi tipici della “Sindrome del bambino vulnerabile”, cioè le difficoltà nel rendimento scolastico e l’eccessiva preoccupazione per le malattie, non ho elementi sufficienti per affermare che esistano in maniera paragonabile nei nostri figli iperprotetti.
Tutti possiamo osservare però come nella nostra società la dipendenza dei figli dalle famiglie si protragga molto, molto più a lungo che nelle società nordeuropee e nordamericane e come ciò provochi seri problemi sociali ed economici.
Lascio tuttavia agli psicologi e ai sociologi il compito di analizzare più a fondo questo aspetto e di trarre delle conclusioni su di esso.
Personalmente credo che, se le mie osservazioni sono corrette, ci siano motivi sufficienti perché chi tiene al benessere dei nostri bambini si preoccupi e si adoperi a contrastare i fattori che causano la loro vulnerabilità.
Per concludere vorrei darvi appunto un breve accenno ai mie sforzi per combattere ambedue le sindromi di cui ho parlato (per così dire, la “maggiore” e la “minore”), ed attutirne l’impatto sullo sviluppo della personalità dei nostri bambini.
Cosa può fare il pediatra
Ritengo che, a questo fine, noi pediatri dovremmo sfruttare al massimo l’opportunità unica che abbiamo di stare a stretto contatto con le famiglie più degli altri specialisti.
Credo fermamente che innanzitutto un’informazione moderna e scientificamente fondata sia la base per superare i pregiudizi responsabili delle fobie di cui ho parlato. E’ proprio perciò che da più di quindici anni sono diventato un po’ un grafomane e ho scritto quattro libri e moltissimi articoli divulgativi. Inoltre ho organizzato corsi per aiutare i genitori a comunicare meglio con i figli.
Poi, anche durante le visite periodiche parlo molto a lungo con i genitori, tutto il tempo che reputo necessario, rischiando spesso di essere licenziato dalla mia segretaria! E mi ritengo abbastanza soddisfatto dei risultati dei miei sforzi, per quanto parziali e limitati.
Ovviamente le attenzioni vanno moltiplicate in casi come quelli di Giacomo, il bambino che vi ho descritto prima.
I genitori che hanno avuto esperienze drammatiche come Deborah e Pino hanno una sete inesauribile di informazioni e rassicurazioni, ma hanno anche un gran bisogno di dar voce alle proprie angosce. Come altre persone che si trovano in situazioni analoghe, provano molto sollievo a sapere che la loro sofferenza ha un nome, che è condivisa da altri.
Perciò, fra l’altro, li metto spesso in contatto con persone che abbiano già sofferto per esperienze simili. So bene che è improbabile che la loro ferita profonda, subita in un momento così cruciale come la nascita del proprio bambino, guarisca del tutto e definitivamente. Tuttavia una migliore conoscenza di ciò che è accaduto effettivamente dal punto di vista medico e una maggiore consapevolezza dei propri sentimenti li aiuta a non danneggiare il rapporto con il loro bambino e li induce spesso a una sana autoironia. Talvolta, nei nostri colloqui, partendo da una considerazione angosciosa, finiamo per scoppiare in una bella risata liberatoria .
Per maggiori approfondimenti è possibile consultare la sezione “LIBRI” dove potrai leggere i riassunti che trattano della salute e del benessere del tuo bambino.