A me sembra che oggi, preoccupati come siamo a non far mancare nulla ai nostri figli e a risparmiare loro qualsiasi disagio dimentichiamo che il loro bene non è necessariamente il benessere materiale e la comodità.

Per esempio, una delle cose che può contribuire a renderli più attenti ai bisogni degli altri e più capaci di autodisciplina è quello di imparare ad accettare delle regole anche quando sono scomode.

Ecco, a questo proposito ciò che ho scritto sul mio libro “Come parlare ai figli”.

Quando la mia primogenita, a otto, nove mesi, desiderosa di restare con noi adulti, piangeva di rabbia al momento in cui veniva messa nel suo lettino, il mio primo impulso era quello di non cedere alle sue proteste e di lasciare che si addormentasse da sola.

I sensi di colpa però e la solita osservazione dei nonni: “Non la far piangere, è piccola!” avevano buon gioco.

La nostra bimba così imparò fin da quella tenera età che con il pianto (con le opportune modulazioni di intensità) poteva superare abbastanza facilmente qualsiasi barriera. Dio solo sa quanto disagio questo tipo di condizionamento abbia creato in seguito a noi genitori e soprattutto a lei stessa e quanto duro lavoro e sofferenza le è costato acquistare, con grande ritardo, il senso della realtà e dei suoi limiti che le era stato risparmiato all’inizio.

 

Le resistenze dei genitori

Questa difficile esperienza e poi gli studi mi hanno insegnato innanzitutto che è un errore fondamentale rimandare a lungo l’imposizione di regole e limiti, nel timore che un bambino nei primi anni di vita sia ancora troppo piccolo per tollerarli.

Mi sono fermamente convinto che invece sia indispensabile farlo presto e che siano i genitori (e non altri) i più indicati a cominciare. Un bambino infatti deve abituarsi da subito all’idea che anche chi lo ama di più non ritiene sempre giusto soddisfare i suoi desideri e che non esita, quando è necessario, a imporgli frustrazioni e sacrifici.

Ed ecco i lati positivi di un’operazione del genere.

Innanzitutto ciò permette a un bambino di acquisire presto il senso della realtà, con i suoi limiti e le sue durezze, nell’atmosfera più favorevole, cioè sotto la protezione dei genitori.

Lo aiuta poi ad acquisire quell’autodisciplina e perseveranza che gli permetterà di raggiungere gli obbiettivi importanti della vita senza farsi scoraggiare dagli ostacoli e dai sacrifici che è comunque destinato a trovare sulla sua strada.

Allo stesso tempo gli dimostra che i genitori si fidano di lui, cioè lo ritengono capace di superare le delusioni che sono costretti a infliggergli. E questa dimostrazione di fiducia contribuisce decisamente a creargli un’immagine positiva di se stesso, cioè l’amor proprio.

Quando faccio queste considerazioni, molti genitori rimangono comunque esitanti ad adottare degli atteggiamenti fermi nei riguardi di un bambino piccolo, che essi temono sia ancora troppo fragile.

Io li incalzo dicendo: “Provate a immaginare di avere una nidiata di parecchi figli e che quello che avete adesso, invece di essere l’unico, sia il quinto di essi. Sareste forse in grado di dargli tutte le attenzioni che gli concedete ora e di rispondere alle sue richieste con altrettanta sollecitudine? E se invece foste costretti a imporgli molti più limiti, credete che per questo egli diventerebbe una persona peggiore?”.

La conclusione che raggiungiamo insieme è che l’esperienza dimostra esattamente il contrario e cioè che il “quinto” figlio di una famiglia è generalmente una persona solida, gioviale e indipendente, forse proprio perché ottiene meno attenzioni e impara presto a “vedersela da sé”.

Tuttavia quando tentiamo di imporre le prime regole o i primi “no”, è molto probabile che nostro figlio non li accetti, ma che anzi si ribelli e si metta a strillare. E questa sua reazione ci rende il compito più difficile, soprattutto perché ci costringe a resistere al pianto di un essere così piccolo e apparentemente così fragile.

Ma, se questo non bastasse, negli ultimi decenni la cultura familiare ha trovato una giustificazione “moderna”, che induce moltissimi genitori a rinunciare inopportunamente al proprio diritto-dovere di imporre regole e limiti. Si tratta del timore di causare un “trauma psicologico”.

“Ho paura di traumatizzare mio figlio lasciandolo piangere così a lungo” mi dicono spesso i genitori. “Non rischio di farlo diventare infelice e insicuro?” Così esitano a imporgli i sacrifici più ovvi, come quello di andare a dormire a un orario decente o di rinunciare all’ennesimo giocattolo.

Rinunciando alla fermezza e alla coerenza necessarie, moltissimi genitori impediscono ai figli di allenarsi ad affrontare le difficoltà della vita. D’altra parte creano a se stessi dei disagi non indifferenti, perché si preparano il terreno per lunghe e spiacevoli battaglie quando in seguito non riusciranno a farsi ascoltare se non con enormi sforzi e con mezzi che preferirebbero non usare.

Ma non imporre limiti alle richieste di un figlio fin dal primo anno è diseducativo anche per un’altra ragione.

Se egli, piangendo “disperato” ad ogni no che gli opponiamo, riesce ad ottenere sempre ciò che vuole, comincia presto a pensare che ciò che gli concediamo sia un suo diritto, che gli sia “dovuto”. Non si rende conto che ogni sforzo, ogni sacrificio che facciamo per accontentarlo è un atto d’amore, di cui dovrebbe imparare ad esserci grato.

Al contrario, è facile constatare che i bambini che costringono i genitori a cedere ad ogni loro richiesta hanno quasi sempre un atteggiamento insoddisfatto e infelice. Ottengono molto più di quanto sarebbe legittimo insomma, ma sono comunque sempre scontenti…

 

Vedi anche: il libro “Come parlare ai nostri figli”

Per maggiori approfondimenti è possibile consultare la sezione “LIBRI” dove potrai leggere i riassunti che trattano della salute e del benessere del tuo bambino.